Se Obama sceglie il rischio con Teheran

Se Obama sceglie il rischio con Teheran

diA prima vista potrebbe sembrare una notizia di secondaria importanza, in realtà è suscettibile di imprimere una svolta decisiva ai tentativi occidentali di indurre Teheran a sospendere l’arricchimento dell’uranio: il presidente Obama ha deciso che il mondo dispone di sufficienti riserve di petrolio per procedere con le sanzioni che metterebbero in ginocchio l'industria petrolifera iraniana, che con l’esportazione di 2,2 milioni di barili al giorno costituisce la principale fonte di entrate per il regime degli ayatollah. D’ora in avanti, infatti, gli Stati Uniti boicotteranno tutte le istituzioni finanziarie che continueranno ad avere rapporti con la Banca centrale iraniana, che provvede all’incasso delle vendite di greggio.
L’annuncio è stato preceduto da un accurato studio dei mercati e da un complesso lavorio diplomatico. Prima di procedere, gli Stati Uniti si sono assicurati anzitutto che l’Arabia Saudita, che teme una bomba iraniana non meno di Washington («Tagliate la testa al serpente» scrisse già due anni fa re Abdullah ad Obama, invitandolo a fermare Teheran prima che fosse troppo tardi), sarebbe stata in grado di aumentare la sua produzione in misura sufficiente per sostituire il greggio degli ayatollah; in secondo luogo, hanno ottenuto che in caso di aumento eccessivo dei prezzi sia la Francia, sia la Gran Bretagna avrebbero gettato sul mercato le loro riserve; infine ha esercitato forti pressioni sui suoi alleati asiatici, Giappone e Corea del Sud, e perfino sulla rivale Cina, principali clienti del petrolio iraniano, perché cercassero altre fonti di approvvigionamento.
Le sanzioni petrolifere rappresentano l’ultimo tentativo dell’America per fermare la corsa iraniana alla bomba con metodi pacifici, prima che Israele proceda a un intervento militare suscettibile di incendiare tutto il Medio Oriente.
C'è stato un momento, un mese fa, in cui questo intervento, che il premier Netanyahu giudicava indispensabile per evitare un secondo olocausto, fosse addirittura questione di settimane. Per fortuna, il 5 marzo Bibi e Barack si sono incontrati e hanno raggiunto un compromesso: Israele ha concesso altro tempo agli Usa per cercare di piegare Teheran con le sanzioni, e in cambio la Casa Bianca ha garantito che, se questo fosse risultato impossibile, avrebbe comunque bloccato la corsa degli ayatollah alla bomba con altri mezzi («Dobbiamo prevenire, non contenere»).
Nel giocare questa carta, Obama corre dei grossi rischi: la prospettiva di una drastica riduzione dell’export iraniano, combinata con le minacce di ritorsione di Teheran, potrebbe fare impazzire il mercato, con serie conseguenze per le già non troppo fiorenti economie occidentali. Il conseguente aumento della benzina in America lo danneggerebbe sul piano elettorale.
Ma, soprattutto, il presidente è cosciente che le probabilità che l’Iran si arrenda e rinunci formalmente al suo programma di arricchimento dell’uranio, aprendo tutti i suoi impianti agli ispettori della Iaea, sono abbastanza scarse.
La prima seria verifica delle intenzioni degli ayatollah si avrà il 14 aprile, quando è in programma l’ennesimo round di negoziati, ma le previsioni sono che essi abbiano accettato di tornare a sedersi intorno a un tavolo solo per guadagnare altro tempo.
Tuttavia, l’America si attacca alla speranza che il rapido deterioramento della situazione economica, con il rial che in due mesi ha perso il 75 per cento, l’inflazione che tocca ormai il 30 per cento e la prospettiva di una nuova, pesante stretta possano ancora indurre Teheran alla ragione. In un certo senso è un ritorno alla brinkmanship, la politica del rischio calcolato, che andava di moda nella guerra fredda.


Per l’Europa in generale, e l’Italia in particolare, questo passo avanti sulla strada delle sanzioni comporta importanti sacrifici, ma sembra che tutti siano disposti ad adeguarsi:

nella speranza che questa questione, che si trascina ormai da anni,

possa finalmente trovare una soluzione.

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