
L'ultimo appello di Tayyip Erdogan, il nuovo sultano, sembra avere raggiunto il suo scopo: «Se il mio partito subisse un crollo dei consensi e perdesse il primo posto, lascerei la politica», ha detto prima di deporre la scheda nell'urna. A giudicare dai risultati, ancora parziali, diffusi ieri sera dopo una giornata elettorale turbolenta, durante la quale otto persone sono morte in uno scontro tra candidati al confine con la Siria e due spericolate esponenti di Femen si sono presentate al seggio del premier con le parole «Cacciate Erdogan» scritte sul seno nudo, l'Akp è rimasto sicuramente il primo partito con una maggioranza aumentata rispetto alle ultime amministrative, ma in calo di tre punti nel confronto con le precedenti politiche. Né Istanbul né Ankara sono cadute nelle mani dell'opposizione kemalista anche se i risultati definitivi si conosceranno solo oggi.
L'Anatolia profonda, cuore del potere del Partito islamista, che in dieci anni ha promosso con efficacia il suo sviluppo, ha tenuto anche più del previsto, e città semisconosciute in Europa come Kayseri e Bursa hanno compensato le (apparentemente modeste) perdite subite nelle grandi metropoli a causa degli scandali che hanno investito il premier, il suo partito e i suoi stessi familiari negli ultimi tre mesi. In questa Turchia ancora arretrata, molto più religiosa di Istanbul e Smirne, il fatto che Erdogan, pur di vincere, non abbia esitato a chiudere Twitter e Youtube, abbia messo in galera decine di giornalisti e licenziato centinaia di poliziotti e magistrati non ha pesato in maniera decisiva. Nei piccoli centri, l'assuefazione a un potere autoritario ha prevalso sulla irritazione per gli affari sporchi e le ruberie; e anche la caduta della Borsa, la perdita del 25% della lira turca sul dollaro, la fuga di capitali, non hanno avuto l'impatto che ha prodotto nel mondo degli affari concentrato nelle tre maggiori città.
Quella di Erdogan rischia, tuttavia, di essere una vittoria di Pirro. Le armi usate in campagna elettorale, le notizie filtrate nonostante il tentativo di controllare i media e i contrasti emersi con gli altri maggiori esponenti dell'Akp, a cominciare dal presidente della Repubblica Gül, le dimissioni per protesta di ben undici deputati, hanno minato la sua autorità e reso incerto il suo futuro. Il suo sogno originario di modificare la Costituzione, trasformando la Turchia in una Repubblica semipresidenziale e di prendere nelle elezioni di agosto il posto dello stesso Gül è sicuramente tramontato. Per continuare a dominare la scena, dovrà convincere il suo partito a cancellare la norma che oggi gli impedisce un quarto mandato come primo ministro, e poi sperare che nelle elezioni legislative dell'anno prossimo l'AKP conquisti di nuovo la maggioranza.
Una cosa è certa. Gli ultimi avvenimenti hanno profondamente modificato l'opinione che l'Occidente aveva di Erdogan e di conseguenza reso la Turchia più vulnerabile e più sola. L'insistenza con cui durante la campagna elettorale ha attribuito l'origine di tutti i suoi guai a un complotto straniero, al punto di volere espellere l'ambasciatore americano, gli ha inimicato non solo gli Stati Uniti, che pure lo portavano in palma di mano, non solo Israele, con cui ha rotto a causa delle vicende di Gaza, ma anche molti politici europei, che una volta erano favorevoli all'adesione della Turchia nella Ue ma oggi almeno finché non cambieranno gli equilibri politici - non la ritengono più possibile.
Sotto molto aspetti, essa ha infatti cessato di essere uno Stato di diritto, con il governo che ignora le decisioni della magistratura, inscena processi farsa per liberarsi dei suoi avversari e considera la libertà di stampa una jattura.
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