
Il discorso di Mario Draghi al Meeting di Rimini partecipa a pieno del dibattito sull'Europa inaugurato quest'estate sulle colonne di questo giornale. Andiamo al nocciolo. Per Draghi l'Europa deve spogliarsi delle sue illusioni. Per troppo tempo abbiamo scambiato la ricchezza per potere, persuasi che il mercato unico bastasse a farci valere negli equilibri internazionali. Ci siamo adagiati sull'idea di vivere in un giardino all'inglese, ordinato da regole e pace universale. Mentre intorno premeva una giungla hobbesiana, dove regnavano forza e cinismo. E quando siamo stati bruscamente riportati alla realtà, abbiamo pensato che spendere più di tutti gli altri per difendere Kiev ci avrebbe aperto la stanza dei bottoni. Ma non è così o, quanto meno, non è scontato. Per questo, dobbiamo svegliarci in fretta. Si stanno fissando gli equilibri di un nuovo ordine mondiale. E l'Europa - stretta tra una Russia aggressiva, un'America sempre più assertiva e una Cina che brandisce la leva commerciale quale strumento di dominio - rischia di non toccare palla. Non sarebbe, d'altro canto, la prima volta. L'ultimo europeo a dire la sua in un momento di riordino degli equilibri del mondo fu Winston Churchill a Yalta. Per il suo carisma e per quanto il Regno Unito aveva fatto per impedire la definitiva vittoria dei totalitarismi. Da allora, una lunga catena di episodi hanno segnato una sostanziale subordinazione. Vista in questa chiave, il viaggio dei leader europei a Washington per interloquire con l'amministrazione Trump sull'ipotetica pace tra Russia e Ucraina è una buona notizia. L'Europa ha resistito alla tentazione dell'anatema e ha rilanciato «il vincolo transatlantico possibile». Ha così dimostrato realismo. L'auspicio ora è che utilizzi lo stesso metro in ambito economico. Che si inizino, perciò, a favorire tutte le dinamiche che le consentano di essere competitiva in un mercato ancora globale. Ma che nella stagione dei dazi si è fatto più insidioso. Serve, a tal fine, discontinuità. Serve, in sintesi, operare un taglio deciso con disposizioni, regolamenti e divieti che fin qui l'hanno distolta dalla realtà portandola ad ammirarsi estasiata l'ombelico.
Si potrebbe perciò concludere: l'Europa o è realismo o semplicemente non è. C'è, però, un punto dolente da affrontare. Il Vecchio Continente non possiede un mito che corrisponda a questa definizione, in grado di mobilitare le volontà e infiammare i cuori. E la storia, invece, ha insegnato come di narrazioni coinvolgenti non hanno bisogno solo i regimi autoritari e/o totalitari, ma anche i sistemi che difendono la libertà e la democrazia. Anche a voler essere benevoli con lo spirito di Ventotene, quel mito puntava a estinguere i nazionalismi e garantire la pace interna. Ma oggi le sfide sono altre. L'Europa «reale» ha bisogno di uno scudo comune per difendersi dalle minacce esterne, di una fucina dove plasmare energia e tecnologie, di un tavolo delle decisioni che spezzi i veti, superi i divieti e la metta nelle condizioni d'agire. E per fare tutto questo - è qui il punto centrale - non bastano le ricette tecnocratiche. Se ci si ferma lì, difficilmente vedremo germogliare qualcosa di nuovo. Dovrebbe avercelo spiegato la pandemia. La lotta al virus, infatti, rese possibile ciò che sino ad allora sembrava impensabile: il trauma del covid ci spinse a riconoscersi in una comunità di destino, e solo in conseguenza di questo fu possibile prevedere un embrione di debito comune. Occorrono, dunque, miti nuovi all'altezza delle sfide attuali. È la vera sfida che una nuova generazione di politici europei dovrà affrontare.
Per essere in sintonia con la storia che stiamo vivendo e dare forza a quanto il viaggio a Washington ha fatto intravedere, non ci si può più limitare a distruggere i miti del passato. È giunta l'ora di inventarne di nuovi. E di trovare le parole per trasmetterli ai popoli.