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La cabina di regia della comunicazione tra colpi di genio e incursioni da evitare

La comunicazione è uno degli strumenti fondamentali in politica: probabilmente è quello che determina una vittoria elettorale o una leadership che duri nel tempo

La cabina di regia della comunicazione tra colpi di genio e incursioni da evitare

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La comunicazione è uno degli strumenti fondamentali in politica: probabilmente è quello che determina una vittoria elettorale o una leadership che duri nel tempo. Di converso un errore nella comunicazione può essere fatale al gradimento di un governo o di una premiership. Ad esempio, Giorgia Meloni nello scegliere Elly Schlein come sfidante, nel preferire lei come duellante ci ha visto lungo.

La segretaria del Pd è l'avversaria più facile per il premier: rappresenta un mondo alternativo alla Meloni ma anche minoritario. Vedersela con una paladina della cultura woke, con una campionessa dei diritti di ogni dove, con un concentrato di sinistre elitarie e radical chic è congeniale a chi si è presentata sulla scena politica come una «underdog» animata da una grande voglie di rivincita. Sarebbe molto più difficile prendere le misure con il populismo trasversale e senza inibizioni ideologiche di un personaggio come Giuseppe Conte. O ancora, per dire un altro nome, con l'abilità tattica di Matteo Renzi o con il posizionamento moderato di qualche nome nuovo del riformismo di sinistra. Questi rappresenterebbero un rebus. Con la Schlein le schermaglie televisive saranno vivaci ma l'esito, non me ne voglia la segretaria del Pd, è di per sé scontato. Qualunque leader dei conservatori inglesi sceglierebbe come avversario una figura come Jeremy Corbyn e, diciamoci la verità, se Marie Le Pen se la fosse dovuta vedere con Mélenchon e non con Macron sarebbe da quel dì l'inquilina dell'Eliseo.

Ecco perché l'idea della Meloni di costruire una narrazione basata sul duello Giorgia e Elly è una furbizia che rasenta la genialità visto che l'avversaria non può sottrarsi. Per la Schlein, infatti a questo punto un rifiuto equivarrebbe ad un'abdicazione.

Non è, invece, stata un'idea geniale quella di un esponente di Fratelli d'Italia, Federico Mollicone, di intervenire sui meccanismi dell'informazione. Mollicone ha smentito le interpretazioni che sono state date da alcuni organi di stampa della sua sortita che non aveva nessun intento censorio e gliene do atto, ma cosa significa parlare di «una certificazione digitale delle notizie per combattere le fake news» o «difendere l'attendibilità delle fonti e la veridicità delle informazioni»? Vuol dire che non sarà il prestigio o l'autorevolezza del giornalista a garantire la correttezza di una notizia? O ancora che ci sia bisogno di un atto notarile, di un timbro o giù di lì per dire se una notizia è falsa o vera? L'idea è di per sé stravagante, se poi proviene dalla politica addirittura inappropriata.

Roba che richiama lo spauracchio del ministero dell'informazione di stampo sovietico o orwelliano. Per cui ha fatto bene Mollicone a rettificare, a precisare, ma la politica dovrebbe restare distante. Anche perché meccanismi del genere potrebbero trasformarsi in un boomerang. Se fosse un ente o un'istituzione di derivazione politica a certificare la bontà di una notizia, si può stare sicuri che quella che fosse considerata falsa sarebbe la più letta, quella che attirerebbe maggiormente l'attenzione dell'opinione pubblica. Basterebbe citare due grandi del passato per rendersene conto. Per Indro Montanelli l'unico padrone del giornalista è il lettore.

Per Giulio Andreotti una smentita è una notizia data due volte.

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