Europa

I leader candidati alle Europee tirano l'affluenza

Da una parte ci sono le tattiche dei leader e i bracci di ferro tra i partiti, dall'altra ci sono due questioni che andrebbero coniugate sia con le candidature dei numero uno per le europee e sia con la diatriba spinosa del terzo mandato dei governatori di regione

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Da una parte ci sono le tattiche dei leader e i bracci di ferro tra i partiti, dall'altra ci sono due questioni che andrebbero coniugate sia con le candidature dei numero uno per le europee e sia con la diatriba spinosa del terzo mandato dei governatori di regione: la prima riguarda l'astensionismo che nelle ultime elezioni ha raggiunto punte che hanno superato il 50%; la seconda il tema sempre più evidente di una classe dirigente inadeguata. Naturalmente nei ragionamenti che si fanno questi due argomenti non si affacciano mai. Eppure non andrebbero trascurati per evitare che la politica si avviti sui falsi problemi e non affronti i nodi veri.

Ad esempio, dove sta scritto che i leader non dovrebbero presentarsi alle elezioni europee perché in caso di elezioni, viste le incompatibilità, dovrebbero rinunciare o al seggio del Parlamento di Strasburgo o a quello nazionale? In realtà è sempre successo sia nella prima che nella seconda Repubblica (basta pensare alla montagna di preferenze ottenute da Giulio Andreotti o da Silvio Berlusconi) e la scelta non è stata sbagliata: è stato un modo per valorizzare l'Europa e aumentare l'affluenza alle urne in un voto che conta molto di più di quanto gli elettori pensino. Queste due esigenze sono ancora più stringenti oggi visto che la disaffezione dei cittadini verso la politica e le istituzioni si è fatta più marcata. Diciamoci la verità, quanti elettori andrebbero a votare se per il parlamento europeo si candidassero solo personaggi di secondo piano o peggio? E un'astensione elevata non sarebbe di certo un messaggio positivo non solo per Bruxelles ma per il mondo intero di fronte alla drammatica fase internazionale che stiamo vivendo, con l'Unione che pesa molto di più nella politica estera e nelle scelte interne dei 27 Paesi. Per cui comprendo le riserve di stile e di galateo istituzionale poste da Romano Prodi e da altri sui leader che partecipano alle elezioni consapevoli fin dall'inizio che dovranno rinunciare al seggio, ma il rischio che i nostri rappresentanti in Europa siano scelti da un numero esiguo di votanti, chessò dal 30% degli italiani, mi sembra un problema ben più grave.

Ecco perché se Giorgia Meloni (foto), come pure Elly Schlein decidessero di candidarsi per Strasburgo non solo la loro scelta sarebbe legittima ma addirittura auspicabile. Queste ragioni però, almeno per coerenza, dovrebbero valere anche quando si affronta il tema del tetto dei mandati per i governatori. E qui le valutazioni dovrebbero investire anche l'argomento della classe dirigente. Capirei se una coalizione decidesse di non candidare un governatore come Solinas che nei sondaggi non eccelle e occupa l'ultimo posto nella classifica del «governance poll del Sole 24 Ore» (anche se poi si vuole sostituirlo con un sindaco che occupa il quart'ultimo posto nella classifica dei sindaci compilata dallo stesso istituto). Non capirei, invece, la scelta di non concedere un ulteriore mandato a governatori come Luca Zaia, Massimiliano Fedriga o Vincenzo De Luca che raccolgono un alto gradimento nelle loro regioni. È come buttare a mare pezzi di classe dirigente che si sono formati nel tempo nelle nostre amministrazioni quando ne soffriamo la carenza. Poi c'è chi si meraviglia ancora del perché la gente non creda più nella politica.

È la politica che ha una gran voglia di farsi male da sola.

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