
Più il mondo si fa pericoloso, più l’Europa si dimostra inadeguata. Per mesi ci siamo sentiti dire che il disimpegno americano dal conflitto ucraino avrebbe finalmente spinto il Vecchio Continente a prendersi le proprie responsabilità e farsi carico della difesa di Kiev. Nientemeno, che sarebbe subentrato agli Stati Uniti nella leadership della Nato e dell’Occidente. Oggi, nel momento in cui l’amministrazione Trump sembra aver deciso di sospendere alcune forniture militari a Zelensky, scopriamo che era solo un sogno: non abbiamo di che sostituire gli armamenti yankee.
Impossibilitata a prescindere dagli Usa per la propria sicurezza, l’Europa si trova in una posizione di debolezza anche al tavolo dei negoziati commerciali. Al quale tavolo, per altro, è in difficoltà pure di fronte alla Cina, dalla quale dipende per le materie prime.
Sull’Iran ovviamente, date queste premesse, era inimmaginabile che toccasse palla.
L’inadeguatezza europea ha due sorgenti, una materiale e una morale. Materialmente, il continente è povero di risorse naturali e, anche a motivo del ritardo tecnologico, insufficiente nella dotazione militare. Ma non scopriamo certo adesso che l’Europa è carente di risorse: non per caso, già negli anni Cinquanta Jean Monnet pensò l’Euratom proprio perché aveva capito che essa andava resa energeticamente autonoma. Quanto alla tecnologia e alla difesa, se non siamo all’altezza è perché abbiamo fatto ben poco per esserlo.
L’inadeguatezza materiale europea, insomma, è il frutto anche delle scelte inadeguate che le classi dirigenti continentali hanno fatto per lo meno negli ultimi trentacinque anni. Un giudizio, questo, il cui valore non è meramente storico: capire dove abbiamo sbagliato è premessa indispensabile di qualsiasi possibile correzione di rotta.
Veniamo così alla parte morale della questione. L’Unione Europea ha preso forma fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta del secolo scorso, l’epoca in cui l’Occidente vinceva la Guerra Fredda e s’illudeva di poter esportare il proprio ordine in tutto il mondo. Un ordine di ispirazione liberale ma a tinte utopiche, fondato sulla convinzione che i popoli della Terra fossero ormai destinati a convivere pacificamente all’interno di un quadro ben architettato di regole economiche e giuridiche, condividendo i frutti di un progresso costante e illimitato.
Un ordine a bassa se non bassissima intensità di politica: che cosa può restar mai della politica, in un mondo che imbriglia il potere in sistemi impersonali di regole e risolve i conflitti prima ancora che si presentino grazie a uno sviluppo economico e tecnologico che consente di dare di più a tutti senza togliere a nessuno?
Nata in questo clima – di più: nata unicamente perché questo clima le ha consentito di nascere –, l’Unione Europea è geneticamente depoliticizzata. E negli ultimi trent’anni questa sua propensione congenita si è ulteriormente rafforzata. Sia perché quel poco di politica che è riuscito a sopravvivere lo ha fatto nelle capitali nazionali, non a Bruxelles, ed è stato visto quindi come un ostacolo al progredire dell’integrazione continentale.
Basti pensare all’ostilità isterica con la quale è stato accolto il montare dei cosiddetti populismi, fenomeno politico se mai ce n’è stato uno, e a come ci si sia affannati ad arginarli facendo forza sulle regole giuridiche ed economiche. Sia perché l’Europa ha cercato di valorizzare questa sua natura proponendosi come esportatrice di regole, come «potenza normativa», quando non addirittura come l’embrione di un nuovo ordine globale fondato sul diritto. Il tutto è stato poi ricoperto dalla pesante glassa della retorica europeista, col suo caratteristico disprezzo programmatico per la realtà, sparsa in abbondanza in prestigiose pubblicazioni accademiche e pensose conferenze internazionali finanziate non di rado dalla stessa Unione Europea. Sogni di solo pochi anni fa che a rileggerli oggi farebbero ridere, se non facessero piangere di rabbia.
Oggi l’Europa è un anziano, esperto giocatore di calcio che si trova catapultato su un ring di pugilato. A ogni pugno che riceve, protesta con l’arbitro: «Ma è fallo!». Solo, nel gioco nuovo non è più fallo. In più, l’arbitro si è messo pure lui a tirar cazzotti.
In queste condizioni, quel giocatore potrà salvarsi soltanto smettendo di far finta che il gioco cui partecipa sia ancora il calcio, prendendo atto della realtà e imparando la boxe. Fuor di metafora: abbandonando ogni retorica, ormai sempre più paralizzante, e mettendosi con la massima urgenza a fare politica.
Ma può un’istituzione nata più di trent’anni fa grazie alla crisi della politica, che di quella crisi per trent’anni si è fatta un vanto, imparare a far politica dalla sera alla mattina? È lecito dubitarne.
Lo scarso senso della politica sopravvissuto in Europa, dicevamo prima, è nelle capitali nazionali. E non si può che ripartire da quelle, allora. Ma – si dice – i singoli paesi europei sono pesi piuma in un mondo di pesi massimi. È vero, ma almeno hanno qualche residua capacità di stare sul ring.
Messi tutte insieme hanno prodotto un calciatore, che avrà pure la stazza di un peso massimo, ma la boxe non sa nemmeno dove stia di casa. E poi, certo, i pesi piuma possono e debbono boxare insieme. Ma ripartendo dalla politica, dal potere, dai conflitti e purtroppo anche dalla violenza.Non certo dalla «potenza normativa».