È di nuovo il momento di Andy Warhol e della sua Factory. Negli ultimi due anni, anche in Italia, come già negli Stati Uniti, i libri, le mostre e i film dedicati al più emblematico rappresentante della Pop Art e al suo anomalo laboratorio creativo si sono moltiplicati, creando una sorta di fenomeno-Warhol che ha coinvolto un pubblico incredibilmente vasto. I motivi di questo successo sono presto detti: Warhol non era solo un grande artista, ma anche un individuo con il dono della profezia. Le sue opere intercettavano l'aria dei tempi, ma suggerivano anche in che direzione avrebbe successivamente spirato, cioè come si sarebbe evoluta la situazione artistica e culturale dei decenni a venire. Anche oggi, a più di vent'anni di distanza dalla sua morte, le sue riflessioni sul rapporto tra arte e società, così come lo stile delle sue opere, sono del tutto attuali, e sono più o meno consapevolmente citate da schiere di artisti in erba e da critici a corto di idee. La Factory era per Warhol il luogo in cui sperimentare le sue intuizioni, testarle sulla pelle dei suoi collaboratori, dei suoi collezionisti e dei suoi ammiratori, che erano spesso orgogliosi di fare da cavie. In particolare, in quella ex fabbrica dalle parti della 47° strada di Manhattan, tra gli anni Sessanta e i Settanta dilagò una malattia per allora piuttosto nuova, ma oggi del tutto comune, che potremmo chiamare "bulimia esistenziale". Creativi di ogni genere - pittori, musicisti, filmaker - ingerivano avidamente la vita, per poi rigettarla attraverso un'autodistruzione praticata sistematicamente, abusando di droghe e di alcool o lasciandosi corrodere dal bisogno frustrato di celebrità. Warhol, che in quanto portatore sano di questo morbo aveva contagiato i suoi amici, assisteva incuriosito al dilagare dell'epidemia, e in un certo senso se ne nutriva, o perlomeno nutriva la sua arte. Per esempio la vitalità paradossale, orgiastica ma allo stesso tempo decadente, evocata dai suoi film lo riguardava solo in parte, ma di certo caratterizzava la «famiglia un po' folle», come la definisce Sergio Fant, che aveva costituito con i numerosi collaboratori di cui si circondava.
Fant è il curatore di «Pop Lives! Warhol, le superstar e la Factory», la rassegna di film dedicati al mondo della Factory in programma allo Spazio Oberdan dal 9 al 17 gennaio. Film su Warhol, ma non di Warhol: non si vedranno insomma classici come «Sleep» o «Empire», ormai entrati nell'immaginario collettivo per la loro ossessiva fissità, ma nemmeno «The Hustler» o «The Chelsea Girl», due tra i maggiori successi della filmografia warholiana, entrambi capolavori di un'ambiguità sottilmente visionaria. Si vedranno invece dei documentari sull'artista e il suo mondo accostati a film sperimentali, tutti girati da alcuni bizzarri e inquieti frequentatori della Factory. Tra le proiezioni da non perdere c'è «Andy Warhol: a documentary», una produzione televisiva di grande qualità, fluviale ed estremamente dettagliata, in cui la voce narrante è affidata alla cantante e performer Laurie Anderson, un documentario che permette non solo di mettere a fuoco il carisma del personaggio in questione, ma anche di fare un bel ripasso della storia dell'arte e del costume tra gli anni Sessanta e gli Ottanta.
Uno sguardo attento lo merita anche «Jack Smith and the Destruction of Atlantis», un film che Mary Jordan ha dedicato al più geniale filmmaker che abbia frequentato la Factory: Jack Smith, icona della cultura alternativa americana, autore di opere barocche e intriganti, ma anche tra i pochi capaci di tenere testa a Warhol, a cui non perdonò mai la deriva commerciale della sua creatività e da cui si allontanò tempestosamente.
Questi film - così come quel vero e proprio cult movie che è «Ciao! Manhattan», o il ritratto di Jackie Curtis, una pionieristica drag queen, abbozzato in «Superstar in a Housedress» - rievocano il clima di esuberanza e dissoluzione che regnava in una «struttura perversa e distruttiva», nelle parole di Fant, qual era la Factory.
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