Politica

Il fantasma di una guerra fratricida

Luciano Gulli

nostro inviato a Ramallah
Il primo a capire la devastante portata della disfatta - molte ore prima che la commissione elettorale annunci quel terrificante 76 a 43 che avrà fatto ribaltare nella tomba Yasser Arafat - è il premier Abu Ala, che di buon mattino ammette la sconfitta e annuncia le sue dimissioni. Il terremoto, l'onda sismica che ha vistosamente lesionato il vecchio partito di raccolta palestinese (e fatto polpette di ogni sondaggio e ogni exit poll) è maturata nella notte, man mano che affluivano i risultati da Gaza, da Hebron, Nablus, dalla stessa Ramallah.
Ora, i volti dei dirigenti che uno dopo l'altro, al culmine della mattinata, vengono a radunarsi intorno al capezzale del presidente Abu Mazen, chiuso negli uffici della Muqata, tradiscono tutta la sorpresa, la stizza, lo sconcertato disorientamento di chi si sente umiliato e offeso. Sfila aggrondato il volto di Abu Ala, semisepolto sotto un colbacco moscovita. Transita il negoziatore capo dell'Olp Saeb Erekat, il bavero del soprabito rialzato per difendersi dalle folate di vento freddo che spazzano la collina della Muqata inondata di sole. Alla spicciolata si infilano nel palazzotto presidenziale il capo dei servizi segreti per la Cisgiordania Owfik Tirani e il governatore della regione di Ramallah Mustafa Issa.
All'uscita, è proprio Erekat che apre il fuoco di sbarramento. Gonfio di rabbia contenuta annuncia che il presidente affiderà ad Hamas il compito di formare il governo, e che Al Fatah ne resterà fuori. «Noi ora dobbiamo riflettere sui nostri errori e dedicarci alla riorganizzazione del nostro movimento. Capire perché abbiamo perso e metterci al lavoro. Chi ha vinto le elezioni si assuma ora le responsabilità del governo. Noi, da parte nostra, faremo un'opposizione leale».
Peccato che abbiano vinto quelli che tra i fondamenti della loro ragione sociale hanno la distruzione di Israele. Come potrà proseguire il processo di pace? gli domandano. E lui: «I nostri avversari conoscono tutti gli aspetti del dossier sul tavolo. Ora tocca a loro prendere in mano la fiaccola e proseguire il cammino». Vi hanno accusato di corruzione, di aver intascato 6 miliardi di dollari, e su questo, anche su questo, i radicali islamici hanno costruito la loro fortuna alle urne. «Bene, che aprano un'inchiesta. Io dico che non un solo dollaro è finito nelle tasche dell'Anp. Dimostrino il contrario». Se la prende con Israele, Erekat. «La segregazione di Arafat alla Muqata, il muro, l'occupazione dei territori. Il voto ad Hamas è il risultato della loro politica miope. Gli israeliani hanno detto che non eravamo un interlocutore affidabile. Provino un po' a vedere come se la cavano con questi altri», conclude beffardo. In serata è lo stesso Abu Mazen a parlare con la stampa. Il presidente annuncia che comincerà immediatamente le consultazioni per formare il governo, che sarà diretto da Hamas, e assicura di essere deciso a continuare gli sforzi per arrivare a un accordo di pace con Israele, malgrado la vittoria del movimento islamico.
Lo tsunami targato Hamas ha preso in contropiede tutti. Ha coperto di ridicolo gli istituti demoscopici palestinesi e imbarazzato l'intelligence militare israeliana, che aveva previsto un'affermazione, sia pur di misura, di Al Fatah. Ed ecco il risultato: 76 seggi (sui 132 in palio) ad Hamas. Un vero cappotto. Fra i trombati di Al Fatah figurano anche personaggi illustri, come il responsabile dei servizi di sicurezza Jibril Rajub. Mentre lo stesso Mohamed Dahlan, capobastone di Al fatah a Gaza, ce l'ha fatta per il rotto della cuffia.
Ramallah oggi sembra una città schizofrenica, divisa fra il lutto e la gioia. Con un occhio piange e con l'altro ride, mentre il verde dell'Islam trionfa sui balconi e nelle strade. Due bandiere verdi vengono issate sul palazzo del Parlamento da una folla festante. Ma i supporter di Al Fatah li attaccano a colpi di pietre. Vola qualche pallottola, un ragazzo viene raccolto da un'ambulanza. I proprietari dei bar guardano imbambolati le bottiglie di whisky che hanno sugli scaffali e si chiedono (per burla, apparentemente) se non dovranno cambiare mestiere, o ridursi a vendere tè e caffè (con il conforto di un narghilè) come prevede la legge islamica. Mentre i padri di famiglia che intascano uno stipendio grazie ai foraggiamenti dell'Occidente si interrogano sul futuro.
La destabilizzazione prodotta nelle coscienze dalla vittoria di Hamas si allarga in cerchi concentrici, attraversando orizzontalmente una società spaccata che rischia di assistere a una deriva fondamentalista. Perché Hamas non disarmerà, seguendo l'esempio degli Hezbollah in Libano. E punterà nel frattempo a cambiare i connotati di una società tradizionalmente laica e aperta.
A rischio non c'è solo il processo di pace, cui la società palestinese, a maggioranza, votando per Hamas, mostra di non credere più. Sullo sfondo si agita il fantasma di una guerra fratricida, se le milizie legate ad Al Fatah non accetteranno di rinunciare ai benefici, ai privilegi, ai denari, alle rendite di posizione maturate negli anni, cedendo il passo ai barbuti del movimento islamista.
Come scongiurare il pericolo di una destabilizzazione dei Territori e una guerra per bande fra le due anime della nazione? Un modo, dicevano ieri sera molti analisti, ci sarebbe.

Purché quelli di Hamas, spaventati dalla portata della loro stessa vittoria, senza esperienza di governo, accettino di dividere il potere con Al Fatah (che al momento dice di non volerne sapere). Ma è una ipotesi praticabile? E come reagirebbe un elettorato che, a valanga, ha detto sì agli uni e no alla vecchia guardia del Fatah?
Luciano Gulli

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