Mondo

Un fantasma più volte trasformato in cadavere

Ipotesi e illazioni anche sui luoghi dove si nasconde il 49enne fondatore di Al Qaida

Gian Micalessin

In passato l’hanno già ucciso un paio di volte e catturato un’altra. La serie dei desiderati e invocati trapassi di Osama bin Laden inizia con l’apocalisse di Tora Bora. Tra la fine di novembre e la metà del dicembre del 2001 gli americani annaffiano di bombe le grotte di Tora Bora, ultimo nido di resistenza del numero uno di Al Qaida e dei suoi seguaci dopo la caduta dei talebani. Ma l’Osama dato per disintegrato tra i ruderi delle sue grotte fortificate ha già raggiunto la zona pakistana di Parachinar alla fine di novembre. Dopo quella fuga-beffa qualcuno spera nel decorso maligno della malattia ai reni che affliggerebbe Osama da un decennio.
La leggenda vuole il super ricercato costantemente attaccato a un rene artificiale. La mancanza di quell’attrezzatura vitale, assicura qualcuno, ne ha decretato la morte tra i dirupi dell’arretrata frontiera nordoccidentale pakistana. Il 27 dicembre dello stesso 2001 un emaciato Osama bin Laden compare in video. Certo non è il ritratto della salute. È pallido, dimagrito, ma respira. Per gli ottimisti a oltranza è il chiaro segno di un imminente fatale deterioramento. Fantasticheria puntualmente vanificata dai successivi video, che ne confermano l’esistenza in vita.
Il 49enne fondatore di Al Qaida troppo cagionevole non dev’essere. Se non altro per la vita errabonda degli ultimi vent’anni. Arrivato al confine afghano dopo un’agiata vita da studente all’università di Gedda, questo spilungone di un metro e novanta si divide tra i campi di battaglia e i centri di assistenza di Peshawar, la città pachistana dove raccoglie fondi per la resistenza antisovietica. Rientrato nella natale Arabia Saudita alla vigilia della guerra del Golfo del 1991 propone alla casa regnante di rifiutare l’aiuto dei soldati americani e di accettare l’appoggio delle sue milizie. L’offerta non entusiasma, e Osama si ritrova alla porta. Trasferitosi nel radicale Sudan islamico dello sceicco Hassan al Turabi, Osama investe la ricca eredità paterna nel progetto di Al Qaida. La salita al potere dei talebani in Afghanistan nel 1996 è l’occasione per trasformare il denaro in armi e campi d’addestramento. Nel 1998 sferra il primo colpo importante distruggendo le ambasciate americane di Kenia e Tanzania. I missili Tomawakh lanciatigli contro dal presidente Bill Clinton centrano in ritardo il campo di addestramento dove è stato individuato. Osama bin Laden continua a restare alla macchia fino all’11 settembre.
Durante la successiva guerra afghana le bombe che sbriciolano le roccaforti talebane non lo sfiorano neppure. L’unico vero rischio lo corre a Tora Bora. Da allora è un fantasma periodicamente trasformato in cadavere da notizie non confermate e puntualmente smentite.
Intanto scatta anche la lotteria sulla latitanza. Qualcuno lo vuole in Iran, qualcuno tra le montagne pachistane del Waziristan. Qualcuno cita perfino remote località asiatiche. Osama, probabilmente, resta nei luoghi che conosce meglio, in quella periferia senza legge della frontiera afghano-pachistana. Da lì l’agenzia iraniana Irna il 28 febbraio 2004 comunica addirittura la sua cattura per mano pachistana e l’avvenuta consegna agli americani. Ma è la solita bufala.

Da allora l’evanescente Osama continua la sua flebile vita di leader braccato senza movimento, senza territorio e senza platee.

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