Roma

Il finto benessere e una Medea delusa e «vinta»

Laura Novelli

Dall’angusto perimetro di un tavolo da cucina affiorano tracce di un immaginario quotidiano impastato di disagio e povertà: polpa di pomodoro e sapone di Marsiglia dentro la busta di un discount, una confezione di acqua minerale scadente e - soprattutto - una bottiglia di Vermouth già mezza vuota che funziona da rifugio e consolazione. Anche se per la protagonista di Niente, più niente al mondo, monologo che Nicola Pistoia (anche regista) ha tratto dall’omonimo racconto di Massimo Carlotto e che Crescenza Guarnieri recita attualmente all’Argot, non esistono rifugi né consolazioni possibili perché troppo atroce è l’atto che ha compiuto. Lo capiremo via via che la confessione prenderà forma. Via via che le ossessioni per il denaro, per la televisione, per i pericoli del quartiere (la periferia di Torino) riempiranno l’acre amarezza di una moglie/madre ferita dall’esistenza. Via via che le frasi intercettate nel diario di una figlia troppo bambina enunceranno il fallimento di un’intera vita. Certamente, intuiamo sin da subito che «qualcuno» sta per arrivare, che il disordine esterno richiama la confusione e lo sfascio interiori («Niente, più niente al mondo servirà a mettere a posto le cose»), che quelle macchie di sangue sulla vestaglia da pochi euro hanno a che fare con tragedie indicibili. Tutto, però, deve emergere progressivamente, come se fossimo testimoni di un noir metropolitano dove la follia svela poco a poco sacche di disperazione, sfiducia, rabbia, stanchezza. Stati emotivi che la Guarnieri (attrice sensibile ed eclettica che ci colpì molto in uno spettacolo sui desaparecidos intitolato Tango e qui ritroviamo quanto mai matura, intensa e toccante) attraversa con estrema fluidità, passando dalla nostalgia (il paese d’origine, il matrimonio, il miraggio di un Nord carico di fortuna e lavoro) al tono colloquiale e dimesso, dalle denunce intime alle lamentele ordinarie e al citazionismo televisivo più prevedibile. Per anni questa donna sfinita di fatica e stenti ha sognato, infatti, che sua figlia sfondasse in tv come valletta. Un sogno comune e diffuso, che evoca alla memoria tante altre madri e, tra queste, quella interpretata dalla Magnani in Bellissima: stessa voglia di riscatto, stessa ansia di emancipazione, stesso desiderio di rinascita attraverso la figlia. Qui, però, l’esito volge verso il dramma dei drammi, verso il più orrendo degli omicidi. E la ribellione si ritorce contro se stessa come un boomerang disperato e irreparabile.

Nella semplicità della scena, nella secchezza del linguaggio (sottolineata dal dialetto pugliese), nella regia sobria e cadenzata di Pistoia, giganteggia una figura di «madre e assassina» (per citare il titolo di un fortunato allestimento di Teatrino Clandestino) che ci appare come una dolente Medea di oggi: così fragile da non poter fare a meno del Vermouth e così vera da tradursi in grido di rivolta contro le ingiustizie di una società che facciamo davvero fatica a definire «del benessere».
Repliche fino all’11 dicembre. Informazioni allo 06/5898111.

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