Politica

Fisco, lavoro, successione: tutte le favole della sinistra

La manovra smentisce i proclami fatti dall’Unione in campagna elettorale. Quando Visco assicurava: «Abbasseremo le imposte»

da Milano

Professione ballisti. Non sorprende - lorsignori hanno «già dato», e più volte, anche in passato - ma a leggere il testo della finanziaria balza agli occhi come nei panni di Pinocchio gli esponenti del centrosinistra si trovino belli comodi. Da Prodi in giù, a voler scendere «per li rami» gerarchici (ma anche all’insù, a considerare lo spessore del premier), il documento del governo appare come un festival di promesse (o minacce) mancate. Ricordate la legge Biagi, indilazionabilmente da eliminare? E vi sovviene cosa promettevano in campagna elettorale (ma anche dopo) sulla tassa di successione, che era così urgente reintrodurre? Del resto dovevano armarsi e partire (contro Berlusconi) e soprattutto raccogliere i voti della gauche più estrema.
Bene, di tutto ciò ora non c’è più traccia. Eppure, ecco cosa avevano detto. Sulla Biagi (o Legge 30), mentre il ponderoso programma dell’Unione si limitava a cincischiare un fumoso «dovrà essere profondamente cambiata», le componenti più estreme erano andate ben oltre. «La voglio cancellare», aveva scandito il segretario dei Comunisti italiani, Oliviero Diliberto, subito imitato dal verde Paolo Cento: «Qualsiasi riforma del mercato del lavoro deve avere una premessa: la cancellazione e non la parziale modifica della legge Biagi. Superarla è un atto di civiltà», aveva chiosato lui, che di quest’ultima è un indiscusso arbiter.
Non era stato da meno neppure l’attuale presidente del Senato, Fausto Bertinotti, che ancora in veste di leader di Rifondazione si era detto d’accordo con il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, sostenendo che «come partito anche noi siamo per l’abolizione della legge Biagi». Ma il più fiero distruttore della legge firmata dal docente bolognese assassinato dalle Brigate rosse è sempre stato l’attuale ministro rifondarolo della Solidarietà sociale. Vaticinando «disastri sociali causati da precarietà e flessibilità», Paolo Ferrero ha infatti affermato che «è necessario non solo abrogare la legge 30 ma bisogna anche restringere precarietà e flessibilità previste dal pacchetto Treu (di centrosinistra, ndr) La precarietà del mondo del lavoro produce solo inciviltà».
Quanto al ripristino della tassa di successione, che sembrava scontato fino a poche settimane fa, l’aveva promesso alle frange più rosse lo stesso Prodi a pagina 206 del suo biblico programma, pur affrettandosi a precisare che «l’imposta riguarderà solo grandi patrimoni e fortune dell’ordine di parecchi milioni di euro». Vago lui così come Bertinotti, che in tv aveva promesso: «Saprete prima del voto dove sarà fissata l’asticella per l’imposta di successione». Promessa che ha accompagnato gli italiani alle urne e che ora ha rivelato la sua vera natura: una bufala.
Ma se in campagna elettorale il minaccioso «armiamoci e partite» tendeva a vellicare i reduci del comunismo nostrano, al tempo stesso l’assillo era di non spaventare - specie sulle tasse - la parte moderata di quel cocktail politico tanto variopinto da sembrare opera di un barman impazzito. «È delinquenza politica», tuonava indignato Prodi riferendosi agli scenari fiscali tracciati da Tremonti in caso di vittoria della sinistra. Era solo preveggenza, come conferma l’aliquota del 43% che peserà sui redditi superiori a 70mila euro. «Delinquenza politica sta nel dire menzogne sulle tasse», aveva chiarito Piero Fassino. Mentre Massimo D’Alema aveva definito «chiarissimo ed esplicito» lo scopo delle loro proposte in materia. Ovvero: «Ridurre la pressione fiscale» in quanto «noi non vogliamo stangare nessuno».
A pompierare ci si era messo anche Francesco Rutelli, affermando che «i provvedimenti fiscali colpiranno soltanto le grandi rendite speculative». Una carrellata di falsità coronata da Vincenzo Visco, il Nosferatu nostrano, il Dracula made in Foggia. «Il governo non aumenterà le tasse - si era lasciato infatti scappare - ma cercherà di abbassarle». Detto proprio da lui, con uno dei suoi ghigni migliori. E un brivido era corso lungo la schiena dell’italiano medio.

Fermandosi proprio lì, all’altezza del collo.

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