Cronaca locale

La follia del padre di Yuri: «Dovevo farlo»

L’uomo dopo l’omicidio ha ingerito psicofarmaci per uccidersi. È stato portato al Niguarda, dove ora è piantonato

Una discesa agli inferi brevissima, meno di due mesi dal manifestarsi dei primi sintomi della paranoia in luglio fino all’uccisione del figlio l’altra mattina. Rimasto al fianco del padre, dopo aver fatto allontanare la madre, proprio per aiutarlo a uscire dallo stato di profonda prostrazione in cui era caduto, per colpa di un’immotivata gelosia. Agli investigatori, sono bastati gli ultimi colloqui con i parenti e con il medico curante dell’assassino, per mettere a fuoco tutti gli aspetti dell’assurdo delitto. Rimane solo il «movente», ma su questo l’assassino non riesce a fornire una spiegazione che vada oltre un delirante «Dovevo farlo».
Giuseppe Ciorcovich, 50 anni, di lontane origini croate, viveva al secondo piano di via Morgantini 18 insieme alla compagna Danila Imperio, 52 anni, commessa in un negozio del centro, e al figlio Yuri, 19. Cristian di 30 anni, figlio del primo matrimonio della signora, da qualche tempo invece viveva per conto suo. Un uomo tranquillo, piccolo artigiano specializzato nella posa di parquette, che non aveva mai dato problemi fino ai primi di luglio, quando comincia a essere ossessionato dalla gelosia. Un tarlo che in breve diventa un malattia, che lo porterà anche ad avvicinare uno specialista.
Ai primi di agosto però la situazione diventa insostenibile. Sembra Yuri suggerisca alla madre, sempre più spesso bersaglio dei deliri dell’artigiano, di allontanarsi di casa per allentare la tensione. Sarebbe bastato lui, attaccatissimo al padre, a provvedere a ogni sua necessità. La donna decide allora di trasferirsi dall’anziana madre inferma, rimasta temporaneamente senza badante.
Invece sarà proprio il suo «intromettersi» tra i genitori a condannare a morte questo splendido ragazzo che si stava affacciando alla vita. Yuri infatti proprio in questi giorni, dopo tanti lavoretti, sembrava aver trovato un’occupazione soddisfacente in un centro commerciale. Ma Giuseppe nel frattempo aveva cominciato a vedere anche lui come un nemico e a macinare nella sua mente malata un proposito assurdo. Che metterà in pratica l’altra mattina quando, armato di una mannaia, aggredisce il figlio mentre è ancora a letto. Colpito più volte, il ragazzo tenta di fuggire ma cade morto a un metro dalla porta d’uscita. L’uomo si ricompone, stende un copriletto sul corpo straziato da una decina di fendenti, quindi va in camera da letto. Ingoia alcuni psicofarmaci e si stende sul letto.
Il delitto viene scoperto dalla signora Danila che, allarmata perché il figlio non risponde al cellulare, si reca in casa, apre la porta e scopre il corpo straziato. Arriva la polizia che ammanetta l’uomo ma viste le sue condizioni lo porta a Niguarda dove è tuttora ricoverato.

Agli agenti dirà solo che voleva morire anche lui ma quando gli chiedono perché abbia ucciso si limita a mormorare come una cantilena: «Dovevo farlo».

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