Formigoni attacca il Tar: «In quella sentenza c’è una deriva abortista»

«Ancora una volta c’è una deriva abortista nell’interpretazione delle leggi e questa sentenza ne è la dimostrazione». Il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni critica duramente il «verdetto» del Tar che boccia le direttive regionali sull’interruzione di gravidanza entro la 22esima settimana (il limite a livello nazionale è alla 23esima settimana). E legge tra le righe un «allargamento delle maglie della legge a favore dell’aborto». Insomma, sostiene che anche stavolta siano stati «usati due pesi e due misure. Motivo in più per accelerare i tempi sulla riforma della giustizia».
A supporto della sua tesi, Formigoni fa un esempio: la sentenza del Tar dice che le decisioni sull’aborto vanno prese a livello nazionale? «Benissimo - commenta il governatore - E allora perché non è stata fatta la stessa cosa sulla pillola abortiva Ru486?». Già, perché quando la pillola è arrivata in Italia ogni Regione ha deciso da sé come e dove somministrarla: la Lombardia ha optato per i tre giorni di ricovero obbligatori, altre regione invece hanno autorizzato le dimissioni già dopo il primo giorno, autorizzando, nei fatti, l’aborto casalingo, con tutti i rischi del caso. «In quel caso - commenta Formigoni - non era stato fatto nulla per fermare un provvedimento contro la vita. Invece, contestando il limite per l’interruzione di gravidanza alla 22esima settimana, si blocca un provvedimento pro vita».
Al di là della sentenza, nei fatti le cose cambiano di poco. Anzi, a detta dei ginecologi, non cambiano affatto. Alla Mangiagalli il limite della 22esima settimana è valido dall’inizio del 2005, tre anni prima che venisse formulata la direttiva della Regione Lombardia. Le statistiche allora avevano registrato un elevato numero di casi di sopravvivenza dei feti prima della 23esima settimana e si era pensato di adeguare le regole ai progressi della scienza emanando una direttiva interna all’ospedale. Regola che poi è stata clonata nei reparti di ostetricia di tutta Milano e, a poco a poco, della Lombardia.
A ripercorrere la storia dei limiti temporali che segnano il confine tra l’interruzione di gravidanza e il parto prematuro, è Alessandra Kustermann, direttore del pronto soccorso ostetrico ginecologico della clinica Mangiagalli: «Nel 1978, quando fu approvata la legge sull’aborto - ricorda - raramente un feto poteva sopravvivere alla 27esima settimana di gravidanza. Poi il limite era sceso a 25 settimane, poi a 24. Oggi siamo arrivati alla 22esima settimana grazie al supporto dei farmaci e delle apparecchiature. In Lombardia tutti gli ospedali sono in grado di seguire questi parametri. Ma non è così in tutte le regioni italiane. Per questo la legge regionale non mi è sembrata affatto assurda». Di fatto, la direttiva regionale del 2008 non ha fatto altro che riconoscere sulla carta una pratica che veniva comunemente utilizzata nella stragrande maggioranza degli ospedali milanesi e lombardi.
Certo è che dopo una sentenza come quella del Tar aumentano le possibilità di contenziosi, soprattutto per i casi in cui la diagnosi arriva al limite della scadenza temporale fissata per legge.

I medici comunque continueranno ad applicare la legge 194: se il feto nasce vivo dopo la 18esima settimana di gravidanza verrà assistito in tutti i modi, con l’iperventilazione e tutto il resto anche se i genitori hanno optato per l’aborto.

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