È tutta colpa di una maglietta. Roberto Calderoli, due anni fa, esibì in tv una vignetta antislamica, made in Danimarca, sulla t-shirt. Lontano, a diversi chilometri di distanza, in una ricca casa di Tripoli, il figlio di Gheddafi, non l’ex centrocampista ad honorem di Perugia e Juve, ma il fratello più politico, sbuffò di rabbia e indignazione davanti al televisore al plasma. Ora che Calderoli è in corsa per una poltrona di ministro, il «principe» libico si prende la sua vendetta. Calderoli? È un uomo della discordia. La Lega araba e i musulmani italiani non si associano allo sfogo. Anzi, invitano alla cautela. Noi, italiani, invitiamo gentilmente il gentiluomo libico a farsi gli affari suoi. Roma non è ancora un feudo della famiglia Gheddafi. La sharia vorremmo risparmiarcela, almeno per i prossimi duemila anni. Non c’è dubbio, però, che tutta la questione, magliette, vignette e uomini della discordia, rischia di diventare piuttosto delicata. La famiglia Gheddafi non ha diritto di voto in Italia, ma ha la chiave dei rubinetti del gas e della benzina. E ogni tanto fa il gesto di chiuderli, piccoli avvertimenti, tanto per ricordare da che parte gira il mondo. L’orgoglio ci dice di mandare Sai El Islam, così si chiama il figlio di Gheddafi, a farsi un giro dalle parti di Grillo. Il buon senso ci ricorda che il colonnello libico è abbastanza potente da far giocare suo figlio, che non è Maldini, con la maglia di Sivori, Platini e Zidane. La questione libica finirà senza troppe tensioni solo se verrà usato il senso di responsabilità.
È una giostra di parole, ma serve a ricordare che i messaggi via t-shirt non sono il modo più saggio per risolvere la questione islamica. La geopolitica è come il Risiko: tutti i giocatori sono molto, molto permalosi.mG
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