In fuga dal regime sovietico che uccideva per una rima

Cacciato nel 1972 dalla natia Russia perché dissidente, Joseph Brodsky non accettò mai di essere arruolato nella folta legione dei poeti esuli o emigrati, di essere considerato un utile rifiuto o un avanzo culturale. Lui era, e rimase sempre, un poeta. Negli Stati Uniti trovò la libertà e una nuova patria, e nell’inglese una nuova madre lingua per la sua poesia. Era nato nel 1940 a Leningrado in una famiglia ebrea, e da bambino aveva vissuto l’assedio nazista alla città. Autodidatta, fece i lavori più umili, incluso l’operaio in un obitorio. Più di ogni cosa, però, voleva diventare un poeta, leggeva con furia libri di versi raccattati dovunque, e scriveva poesie, finché Anna Achmatova riconobbe il suo talento. Ma il suo Paese, come disse la moglie di uno dei maggiori poeti russi, Osip Mandel’štam, perito in un gulag, era «l’unico al mondo che uccide(va) per una poesia». E per un manipolo di poesie (in Russia ne pubblicò solo quattro) Brodsky venne perseguitato, rinchiuso in carcere e in case di cura per malati mentali, condannato a cinque anni per «parassitismo sociale» e infine espulso. Non perché le sue poesie attaccassero il regime sovietico, ma perché lo ignoravano, e perché lui non accettava compromessi con i suoi persecutori. Nell’esilio non abiurò mai il suo Paese e il suo idioma, ma divenne figlio di due patrie e di due madri lingue. Tradusse in russo i poeti che amava, poi volse in inglese le proprie poesie, e infine cominciò a scrivere i suoi versi direttamente nella nuova lingua. Fu sempre grato al destino che gli concesse il privilegio di quella duplice identità, che gli diede la fama e gli permise di conoscere il poeta che più di tutti amò e gli fu maestro, W.H. Auden.

Dal quale apprese «la verità sulla poesia» per poter scrivere le difficili verità sulla vita: sempre senza rancore, spesso con ironia. Nel 1987 vinse il Premio Nobel. Nel 1996 fu stroncato da un infarto a New York. È sepolto a Venezia.

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