G20, la «banda dei quattro» entra nell’Fmi

I Paesi del G20 si accordano su una tregua nella guerra delle valute impegnandosi a evitare svalutazioni competitive e far determinare al mercato i tassi di cambio. Non passa invece la proposta americana di porre un tetto numerico ai surplus determinati dal super export. Cina e Germania hanno alzato gli scudi accusando Washington di creare instabilità sui cambi con l’emissione di liquidità per sostenere l’economia americana. Ma il risultato importante è che, nel comunicato finale, per la prima volta si parla degli squilibri delle partite correnti, chiedendo all’Fmi di sviluppare criteri per segnalare situazioni di rischio.
Al termine dei due giorni di vertice nella storica città coreana di Gyeongju, i 20 grandi raggiungono una soluzione di compromesso sintetizzata dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti come «un passo avanti» (nonostante la riluttanza della Cina), rispetto «al silenzio assoluto» precedente. Seppure non si possa parlare di cambi tuttavia, ha riconosciuto il ministro, «c’è un avvio di un processo di critica verso un espansionismo spinto dalla politica dei cambi». Mentre il governatore di Bankitalia, Mario Draghi parla di riconosciuta importanza da parte di tutti «della cooperazione multilaterale» e dei benefici che comporta per evitare i rischi alla ripresa «che c’è ma è modesta». Il G20 ha anche dato un ulteriore via libera alle nuove regole della finanza messe a punto dall’Fsb di Draghi e che dovranno ricevere il visto finale al summit di Seul.
Ma il risultato più importante del vertice è la riforma - a sorpresa - del Fondo Monetario Internazione (Fmi, l’organizzazione che coordina le politiche di sviluppo mondiale anche attraverso finanziamenti agli Stati membri). Ebbene, i Paesi avanzati cedono 2 seggi del consiglio esecutivo agli emergenti, cioè a Brasile, Russia, India e Cina, i quali aumenteranno il loro peso nell’azionariato. Con uno schema in cui, ha detto il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, la posizione dell’Italia «non è in discussione» confermando la sua piena rappresentanza nel board. La riforma prevede che i Paesi del Bric affianchino i maggiori soci del Fmi, (Stati Uniti, Giappone e i quattro europei Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia). In particolare, i Paesi avanzati cederanno il 6,05% delle quote dell’Fmi (più del 5% ipotizzato inizialmente e pari al 6,4% in termini di riequilibrio tra economie sovrarappresentate - tra cui c’è l’Arabia Saudita - e sottorappresentate). La Cina conquista la terza posizione dopo Usa e Giappone con il sorpasso su Gran Bretagna, Francia e Germania. Inoltre l’Europa dovrà cedere anche due seggi sugli otto attuali (nove considerando anche la Russia) sui 24 totali che compongono il board.

Dal momento che le maggioranze richieste dal board per le decisioni rilevanti sono molto elevate (2/3 o anche 3/4 del capitale rappresentato), va da sé quale sia l’importanza dell’ingresso dei nuovi Paesi nel capitale e nel board.

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