Gabriele e Monica Passo a due nell’intimità ferita

Debutta domani al Teatro Argentina di Roma «Danza di morte» di August Strindberg, che vede il ritorno in scena di due protagonisti del panorama teatrale italiano, Gabriele Lavia e Monica Guerritore. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro di Roma e la Compagnia Lavia Anagni, è un dramma in due atti scritto nel 1900 dal grande drammaturgo svedese che lo terminò in una sola settimana.
Nel testo i personaggi sono anime inquiete, molto tormentate, al punto di giungere a una vera e propria lotta omicida. È la storia di un matrimonio lungo cinquant’anni, quello fra Edgar e Alice, è la storia dei fallimenti di una vita intera, lui militare che non è mai riuscito a far carriera e lei che la carriera di attrice l’ha invece abbandonata per il matrimonio. Sogni infranti di una coppia che mette a nudo le proprie frustrazioni.
La scena si svolge su un’immensa montagna di sabbia. I coniugi sono infatti naufragati con tutti i mobili di casa su un’isola deserta. In un atto unico si mette in scena il dramma familiare che prende forma sul palcoscenico attraverso i momenti più intimi della vita di coppia, le lotte corpo a corpo, le urla, gli scontri, i conflitti, dove si svelano sentimenti, impulsi, emozioni, rancori con toni così duri e spietati che arrivano a sfiorare il grottesco ma che rappresentano il vero naufragio di una vita.
«Danza di Morte - spiega Lavia - è la traduzione impossibile del capolavoro di August Strindberg Dodsdansen. La lingua italiana non può tradurre questa parola. Dodsdansen è un solo pensiero che unifica e identifica Morte e Danza. Un’opera scritta come l’eruzione di un’anima gonfia di dolore. Di getto».
Lavia conferma la sua attenzione alla cultura scandinava, tormentata e innovativa: «Strindberg è un autore poco frequentato sulle scene italiane. Eppure la drammaturgia moderna gli deve tutto. Un tempo solo. L’azione semplificata, serrata, classica. Protagonista, antagonista».

«Questa è la mia quinta regia di un’opera di Strindberg - ricorda ancora Lavia -. Ma se ci metto due regie di opere di Ingmar Bergman potrei dire che questa è la mia settima regia poiché il grande regista deve tutto al grande poeta svedese».

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