Roma

Il Galileo di Brecht che piace a Beckett

Lo scienziato tormentato dalla fede ritratto nei suoi momenti più «umani»

Prima di spiegare cos’è, converrà dire ciò che la messinscena di Vita di Galileo di Brecht attesa per questa sera all’Argentina non è e non vuole essere. Non è uno spettacolo convenzionale; non è un omaggio alla tradizione né alle illustri regie precedenti; non è una lettura anticlericale dell’opera (secondo le indicazioni dello stesso autore); non è uno spaccato umano privo di ambiguità e di zone d’ombra. Semmai, questo importante lavoro, diretto da Antonio Calenda e interpretato da Franco Branciaroli, insegue l’ambizione di ritrarre la vicenda dello scienziato pisano (dagli anni della cattedra a Padova fino all’atto di abiura) facendone un terreno minato in bilico tra astrazione e concretezza. Basti osservare la scenografia di Pier Paolo Bisleri: «un cielo stellato - spiega Calenda - che compare e scompare, come a voler rimandare l’idea di un raccordo simbolico tra cosmo e mente». E se il fulcro della questione rimane quello del rapporto tra scienza e potere, regista e attore sembrano volerlo rivestire di declinazioni nuove. Ecco dunque prefigurarsi la fisionomia di uno spettacolo non brechtiano in senso stretto, ma più volentieri emotivo ed emozionante. «Questo Galileo - racconta Branciaroli - è innanzitutto un uomo che entra in drammatico conflitto con se stesso a causa della sua sete di conoscenza. Se fosse stato protestante, il problema non si sarebbe posto. Ma era cattolico. È stato l’unico scienziato della storia umana che, con un atto intellettuale improvviso, ha sconvolto l’assetto teofisico del mondo». Lungo il dipanarsi di questo cocente tormento interiore, il personaggio brechtiano - più volte rimaneggiato dal drammaturgo tedesco e pensato inizialmente per l’esile Leonard Steckel - evolve in maniera drastica e radicale. Non è tanto la sua statura intellettuale che qui balza in primo piano (alla cui rivalutazione hanno già pensato, d’altronde, sia la Storia sia la Chiesa) quanto la sua natura umana: «non intendo farne una figura simpatica, bonaria, perché ciò non risponde al vero. Sappiamo, al contrario, che amava molto il cibo, le donne, che trattava male la figlia. Questi aspetti, senza nulla togliere alle tensioni più spirituali della sua personalità, lo avvicinano a noi».


E ce lo avvicinano al punto da farcene intercettare qualche eco persino in Finale di partita di Beckett, lavoro portato di recente sulle nostre scene proprio da Branciaroli: «Non appena ho iniziato a fare Galileo, ho avvertito delle forti assonanze con Hamm e Clov: il cannocchiale, la cecità, l’ossessione del centro sono tutti rimandi fin troppo espliciti, che mi (e ci) confermano la geniale universalità del capolavoro brechtiano».

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