Pochi personaggi del piccolo grande mondo dello spettacolo di casa nostra sono dotati dell’istintiva simpatia di Alessandro Gassman. Che non solo possiede quel quid inafferrabile che si chiama carisma ma da tutti i pori sprizza un’ironia mai disgiunta da un impeccabile self control. Basta guardarlo mentre tra una domanda e l’altra si passa un dito, ma uno soltanto, sul nodo della cravatta prima di passare in rassegna con l’entusiasmo di un liceale i suoi cento, ma che dico, i suoi mille progetti. Che lui descrive con grazia fin dall’interrogativo di prammatica: cosa farà al Teatro Stabile del Veneto di cui da poco è diventato direttore? «Quel che ho sempre fatto» - assicura divertito - che per me significa lavorare, lavorare e ancora lavorare. Come diceva il più grande pianista di tutti i tempi, Arturo Benedetti Michelangeli». Bella risposta, lo incalzo, ma non pensa che gli impegni teatrali l’allontaneranno dal cinema? «Per me il problema non si pone - confida lui - dato che ho sempre alternato, come un atleta dedito ventiquattr’ore su ventiquattro a una ginnastica salutare, il palcoscenico al set e ai teatri di posa della tivù. L’importante è saper recitare. Una disfida più dura di quella di Barletta che gli attori veri affrontano giorno per giorno tutta la vita».
Sono d’accordo. Ma torniamo al teatro, vuole?
«Dopo una serie di repliche, debutto il 12 marzo a Pistoia con Roman e il suo cucciolo, una pièce inedita del cubano Reinaldo Povod di cui fu protagonista, a New York, nientemeno che Robert De Niro».
Cosa l’ha convinta ad affrontare questa nuova avventura?
«Innanzi tutto, il soggetto. Che narra il tormentato rapporto tra un figlio di nome Che come Guevara e suo padre, costretto a farsi spacciatore nella Grande Mela».
Però lei con Edoardo Erba, autore dell’adattamento, ha spostato l’azione in Italia. Come mai?
«Per sensibilizzare il pubblico sul terribile problema della droga, abbiamo deciso di mutare i cubani osteggiati in Usa da tanti yankee purosangue in quei romeni esuli nel nostro Paese che a volte diventano, da pusher, abituali consumatori di crack e di eroina. Una situazione agghiacciante che si apre tuttavia a un filo di speranza, nella pièce».
Di cui lei sarà regista oltre che protagonista, mi pare.
«Sì, mentre del secondo spettacolo assicurerò la sola messinscena».
Di cosa si tratta?
«Di un capolavoro di Thomas Bernhard che, prima di morire, si è addirittura cimentato con un personaggio del calibro di Immanuel Kant».
Chi sono i protagonisti?
«Due splendidi colleghi come Carlo Cecchi e Marina Confalone».
Tutto qui?
«Scherza? A Vicenza da settembre sarà la volta dell’Erodiade di Testori con Maria Paiato, e poi e poi...».
Non mi dica altro. Ma... e il cinema? È vero che presto dirigerà un film?
«Un po’ di pazienza. Prima di realizzare questo sogno, mi vedrete sullo schermo alle prese con tre personaggi più strani che inquietanti che mai e poi mai pensavo mi venissero affidati».
Vogliamo parlarne?
«Il primo, Basilicata Coast to Coast di Rocco Papaleo, è una commedia tenerissima e sgangherata che, sull’onda di Thelma e Louise, segue e mitizza l’iter compiuto in condizioni disastrose da Rocco e me, musicisti randagi e squattrinati a spasso in una Lucania della memoria. Il secondo, diretto da Lucini, è la più straziante storia d’amore che esista. Tanto che s’intitola La donna della mia vita. Il terzo...».
Basta, mi arrendo.
«Non vuol sapere nulla del Padre e lo straniero di Ricky Tognazzi dove contrasto con qualche efficacia Amra Waked, il più grande attore egiziano di oggi?».
Andrò a vederlo, non dubiti. Ma vedo dalla sua espressione che ha ancora una carta da giocare. Sbaglio?
«Nel cartellone dello Stabile figura anche un autore vicentino apprezzato per il suo sferzante sarcasmo».
Come si chiama?
«Vitaliano Trevisan che in Word Star ha brevettato una ricetta miracolosa ad uso dei mariti che non vogliono rinunciare né alla moglie né all’amante».
Cosa proporrà
mai?«Tramutare la consorte in un’applique da spegnere e accendere a comando mentre, come nei vaudeville dei nostri nonni, l’amante vegeta felice e contenta dentro l’armadio. Che ne pensa?».
A lei l’ardua sentenza, arrivederci.
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