Gaudini, che gridava alla giuria: «Moriammazzàti!»

«Cosa vuole... noi eravamo tre figli e dopo la morte di papà dovevamo pensare a trovare un lavoro, una sistemazione. Eravamo finiti in un collegio, anche se era un istituto di prim’ordine, il San Giuseppe De Merode, a spese del Coni». Mario Gaudini, il figlio del campione olimpionico, Giulio, fa tutt’altro nella vita, è un commercialista affermato. Ma ha un rimpianto. «Mio padre era nato per la scherma. Il suo sogno era quello di aprire una scuola, è morto poco prima di riuscirci. Ma io ho cominciato a salire in pedana che avevo cinque anni; e fra i tre maschi che aveva in casa e poi una quantità di nipoti... be’ qualche talento sarebbe uscito fuori. Quando incontro Aldo Montano glielo dico: guarda che se mio padre non fosse morto, la prima famiglia della scherma italiana saremmo stati noi», sorride. C’è una foto curiosa di Giulio Gaudini che si fa fotografare da Primo Carnera, e il gigante romano supera di una spanna il gigante friulano. Figlio del vicedirettore del parco di Villa Borghese, cominciò da ragazzetto al mitico «Audace Club Sportivo». Sono tantissimi gli aneddoti che riguardano il nostro re di spade. Come quella volta che agli Europei di Vienna - 2 giugno 1931 - urlò alla giuria con un categorico (lo riportarono i quotidiani italiani dell’epoca), in puro vernacolo: «Annate tutti a morì ammazzati». Ci furono vari tentativi di tradurre ma i giurati - fortunatamente - non arrivarono a capo di nulla. «Aveva la scherma nel sangue», continua a raccontare il figlio. Si allenava di notte, davanti allo specchio, quando maestri e allievi erano già andati via. Eppure, lui che è stato uno dei più grandi di tutti i tempi, riusciva a concentrarsi solo nelle grandi occasioni. «Bastava che uno gli dicesse: a Giuliè, annamose a prende un caffè. E lui lasciava tutto». Un altro ricordo lo ha rievocato qualche tempo fa un altro grande, Renzo Nostini: «Una volta durante un allenamento ci sfidammo e vinsi io. Mo’ vado a dirlo alla radio, scherzai. Venne la Seconda guerra mondiale e ci perdemmo di vista. Dopo qualche anno lo incontrai nella sua sala. Mi sfidò e naturalmente mi vinse. Mo’ vallo a dì alla radio, mi fece lui». Giulio Gaudini ha lasciato la sua impronta. Non solo nello sport e soprattutto per la sua umanità. «Dal punto di vista dei valori la mia sensazione è che la scherma sia ancora un’isola felice» dice Mario Gaudini. Conclude con un’ultima immagine. Un ricordo. «Me lo ha raccontato mio zio Adolfo. Allora non si cambiava il maestro, era una specie di padre. Si era alla vigilia della partenza per le Olimpiadi di Berlino nel 1936 (Giulio Gaudini ottenne l’oro individuale nel fioretto, oltre a quello a squadre e all’argento nella sciabola a squadre, ndr). Prima di partire mio padre andò a trovare il suo maestro, Salvatore Angelillo, che era molto malato. E lui lo incoraggiò: «Stavolta non fallirai...».

Appena tornato da Berlino, dopo le vittorie e al colmo della fama, papà andò subito al capezzale del suo maestro, ormai morente. Si fece aiutare dai presenti a sollevarlo, gli appese al collo la sua medaglia d’oro. E lì è rimasta».

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