Turandot, molto più di un’opera

Turandot, molto più di un’opera

La Turandot di Giuliano Montaldo è molto più che spettacolare. Perché, se ad una prima lettura quel che lascia a bocca aperta sono il fasto, gli ori, le solenni danze rituali con sciabole e vaporose stole di seta - e che immancabilmente conquistano il pubblico - quel che invece solletica la mente è il significato di tutta questa magniloquenza nella drammaturgia dell’opera: lavoro sottile e prezioso. Un rituale che è il senso profondo del dramma, che ne è parte inscindibile e che, macabro e impietoso, dipinge la realtà che emana dalla Principessa Turandot; ben lontano, quindi, dall’essere considerato orpello scenografico fine a se stesso e che trascende la natura fiabesca della fonte originaria di Gozzi. Sul palco tutto è impietosamente fermo, ognuno ha la sua rigida collocazione all’interno del rito e dello spazio, in alto, in basso, di lato: nessuno può sgarrare, almeno fino alla «trasfigurazione» della donna toccata improvvisamente dall’ebbrezza d’amore. Momento in cui tutti i sentimenti in gioco vengono liberati, come impazziti, dagli schemi in cui erano ingabbiati e in cui la scena «disgela». Insomma, uno spettacolo (visto anche dalla VII Commissione cultura, scienze e istruzione in visita a Genova giovedì) che rende omaggio alla genuina vena Pucciniana e che senza dubbio fa parlare di sé. Alla faccia dei battibecchi, veri o presunti, tra prime donne capricciose, chi esce prima a sipario chiuso per prendere gli applausi, chi segue a ruota, chi sta ad aspettare e chi si infuria con accenti degni della miglior Vergine mozzateste. Pettegolezzi da prima serata, bazzecole che lasciano il tempo che trovano e che non sono degne nemmeno di cronaca. Parliamo invece di questa «Turandot». Che sì, ha come geniale protagonista Montaldo e i costumi di Elisabetta Montaldo Bocciardo, perfettamente inseriti nella scena e indovinata parte del tutto; ma che ha anche dell’altro, in primis il debutto della celebre Mariella Devia nel ruolo di Liù. Debutto discusso prima, ma indiscutibile ora. Appassionata, elegante, avvolgente, trascinante, la Devia ha confermato il successo della sua lunga carriera, con un’interpretazione magistrale, intelligente e raffinata, che ha dato la vera sostanza al personaggio, cui Puccini non a caso ha dedicato pagine tra le più toccanti dell’opera. E degna di lode anche lei, Giovanna Casolla, altra diva del palcoscenico, che seppur non al meglio delle sue risorse ha dato indubbiamente sostanza vocale ed espressiva alla glaciale protagonista. Non così encomiabile Antonello Palombi (Calaf), cui non manca certo la voce, ma che non possiede la raffinatezza necessaria in alcuni passaggi musicali di squisita, pucciniana, intensità. Prove discrete per gli altri personaggi, Alessandro Guerzoni (Timur), Fabrizio Beggi (un Mandarino); alcune perplessità ritmiche nel comico «terzetto» Giovanni Guagliardo (Ping), Enrico Salsi (Pang) Manuel Poerattelli (Pong); per nulla brillante Massimo La Guardia (Imperatore), non adeguato al ruolo.

Bene il coro di voci bianche di Gino Tanasini. Direzione non sempre controllata (Marco Zambelli) ed esecuzione musicale delle masse a tratti imprecisa, con parecchie sfasature tra buca e palcoscenico. Applausi, comunque, dalla platea.

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