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La gente vuole solo la lotta per la medaglia

Vittorio Pozzo, da allenatore della nazionale azzurra di calcio, vinse due titoli mondiali e un oro olimpico. Riempiva un taccuino con le note della partita. Non gli servivano per illustrare ai calciatori la tattica, gli errori e le omissioni. No, erano gli appunti da dettare a La Stampa di cui il commissario tecnico era corrispondente, inviato, come giornalista professionista. Così sistemava qualunque contenzioso su scelte e risultato. Marcello Lippi ha vinto un titolo mondiale con la nazionale ma, per fortuna sua e di altri, non è giornalista, non scrive per nessun quotidiano, non racconta come siano andate le cose in campo. È costretto a leggere commenti e resoconti di chi si occupa di football. La cosa non sempre gli garba, così come non garbava a Zoff e Maldini Cesare, a Trapattoni, a Vicini, a Sacchi e, particolarmente, a Enzo Bearzot, padre storico, dopo e come Pozzo, dell’Italia campione del mondo.
La nazionale è l’orso del luna park, un bersaglio facile, si presta a qualunque tipo di critica, gli assenti hanno sempre ragione, quando non ci sono di mezzo le fasi finali, degli europei o dei mondiali, il resto è roba piccola, routine, anche molesta soprattutto per i colleghi del ct, gli allenatori di club che si vedono portar via gli elementi migliori e non possono “lavorare” (il verbo “allenare” è stato cancellato, il popolo dei “lavoratori in lotta” fa tendenza, tuttavia gli stessi tecnici dolenti se ne stanno appecorati quando i loro datori di lavoro di club li costringono a cento amichevoli per coprire il volgare monte salari).
Lippi si è lamentato perché di questa Italia non frega niente a nessuno. Verissimo, giocando contro la Georgia, Cipro, Far Oer, San Marino, Lussemburgo, Bielorussia e affini sarebbe difficile eccitare le folle, se le rivali fossero Olanda, Inghilterra, Germania e Francia ci sarebbe più polpa ma scarsa fame, il tifoso vuole sentire odore di guerra, di sfida finale, vuole il titolo, se ne frega del quattrotretrè, delle ripartenze, degli esperimenti, del lancio di giovani virgulti, della mozione degli affetti per la vecchia guardia, esige la medaglia d’oro, il podio, il resto è reality show. Lo stesso dicasi nelle altre discipline: la coppa Davis del tennis? Se non è finale che roba è? Le tappe ciclistiche del Giro o del Tour senza gran premi della montagna, con lo sfizio perfido di tormente di neve o temporali, sono di una noia mortale; la Formula 1, tolta la partenza con testacoda o tamponamenti, stimola il pit stop del sonno, sei secondi e si ronfa; le pole di Valentino Rossi sono come la nebbia in Val Padana o il traffico sulla Salerno-Reggio Calabria, scontate. Dunque Lippi si deve fare una ragione: si scrive e si parla di Mourinho e di Cassano, così come si scriveva e si parlava di Bruscolotti o di Beccalossi, di Fascetti o di Agroppi, fuori dal giro azzurro e anche contestatori del commissario tecnico.
Verranno, si spera, giorni migliori e di festa nazionale. Verrà il tempo per sventolare il tricolore, non si può avere tutto nella vita, ci sono giorni in cui si deve accontentare di Criscito o di Palombo, eccitati dal confronto con Hector Cuper, detto hombre vertical.

In attesa del Sudafrica, Lippi comprenda che, per il momento, è preferibile la posizione orizzontale.

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