Il Giorgio Bocca «genovese», odiato dai comunisti

di Matteo Lo Presti

Aveva un rapporto intenso ed ammirato con Genova Giorgio Bocca. Ostinato intellettuale gli piacevano i silenzi e la concretezza agguerrita dei genovesi. Era l'aprile del 1973 quando Giorgio Bocca presentò a Genova la sua ricerca sulla vita di Palmiro Togliatti pubblicata dall'editore Laterza. Sulla copertina del libro campeggiava una nasuta caricatura del «Migliore» disegnata da Bucharin nota vittima di Stalin.
Non era stato il potente apparato del Pci a organizzare presso il teatrino di piazza Marsala la manifestazione, ma il circolo socialista «Giuseppe Canepa» di via XXV Aprile e nella sala a moderare l'incontro erano Roberto Oppezzi, segretario del gruppo giovani e l'avvocato Carlo Da Molo, presidente dell'Amga. Poche decine di persone, quasi tutti militanti del Psi ad ascoltare le innovative analisi con le quali Bocca aveva lacerato il velo di ipocrisie che ovattava il maggiore partito della sinistra italiano. Ma tra le poltrone di una sala buia erano seduti anche quei pochi comunisti che Bocca prediligeva: i compagni partigiani. La manifestazione si era potuta fare solo con la mediazione di Giorgio Gimelli, giovane partigiano, poi giornalista dell'Unità, consigliere comunale e protagonista nel luglio '60 delle manifestazioni contro la possibile organizzazione a Genova del congresso Msi. Con Gimelli c'era un folto gruppo di partigiani a cui poco interessava che sul «Togliatti» di Bocca fosse caduto l'ostracismo del partito: Bocca e Gimelli avevano un uguale spirito ribelle. Il primo impietoso anticomunista tratteggiava di Togliatti un ritratto che aprì la strada a valutazioni molto serie sul ruolo che le ambiguità del Pci avevano avuto nella storia italiana, il secondo, insofferente che molta autenticità della lotta partigiana fosse stata soffocata da mancanza di ideali, era lì a garantire solidarietà a Bocca.
Alla sera Bocca, a bordo di un taxi, solo, si trasferì in corso Gastaldi alla «casa dello studente» per presentare il suo libro. Sala vuota, l'ordine era di non dialogare con un avversario impegnato a divulgare episodi del comunismo italiano che dovevano rimanere segreti. Tornava spesso Bocca a trovare gli amici partigiani. Faceva con loro puntate veloci a Varigotti dove venivano imbandite nella trattoria della partigiana «Piva» (nessuno conosceva il suo vero nome) allegre cene. A quei tavoli oltre a Gimelli sedevano i partigiani Cerboncini, Parodi detto Polvere, Elio Terribile, Olivari ed altri. Tornò ancora Bocca a Genova al tempo del terrorismo e nel momento delle battaglie scatenate da Paride Batini. Gli piaceva chiaccherare con Luigi Barillaro vice console della Compagnia e membro del famoso collettivo che esaltava lo slogan «né con le Br né con lo Stato».
«I califfi» (non «Sultani» come ha scritto il Secolo XIX) che monopolizzavano le banchine non gli piacevano, avevano logiche economiche deleterie e lo aveva scritto. Alcuni giornalisti furono schiaffeggiati sulle banchine.

Bocca aveva la forte abilità di «usare i ferri del mestiere» con grande serietà. Nel suo libro più autentico «Il Provinciale» consegna la sua ultima immagine mentre fa la pipì sulla neve: ricordiamolo così, beffardo, autentico. Non ha mai scritto romanzi, né fatto genuflessioni davanti al potere.

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