Un giorno in pretura (ma anche in tribunale) con Guareschi

Raccolti in un volume i «radioprocessi» andati in onda fra il ’47 e il ’49

La giustizia spettacolo, il tintinnar delle manette, il dipietrismo, il woodcockismo. Persino Un giorno in pretura. Il tribunale della storia, signori miei, deve condannare tutto ciò all’oblio, di fronte a questi casi esemplari, a questi processi sponsorizzati (pardon, pubblicizzati) «dalla Ditta A. Gazzoni & C. di Bologna, produttrice del Resoldòr». A vergarne il resoconto fu Giovannino Guareschi, fra il novembre del ’47 e il marzo del ’49.
Per seguire tali vicende giudiziarie, l’Italia non si mise in coda con panini, bibite e ombrelli fuori dai grigi palazzi dove si amministra quella cosa che è «uguale per tutti» (suona bene, come slogan...). Le bastò accendere la radio e ascoltare i radioprocessi della serie «Signori, entra la Corte!». Ventinove puntate, ventinove medaglioni che disegnano un Paese ancora una volta alla disperata ricerca di se stesso. Li hanno riuniti ora Carlotta e Alberto, che di papà Giovannino custodiscono la memoria, nel volume Milano 1947-1949: Guareschi e la Radio (Rizzoli, pagg. 482, euro 49, nelle librerie da domani). Qui il conservatore Guareschi, il reazionario Guareschi, l’oscurantista Guareschi, compie un’operazione che ha del clamoroso. Usa gli appetiti commerciali di una solida azienda per amministrare quella cosa che «è uguale per tutti»... sì, la Giustizia, nel modo più democratico (democratico, non populista) possibile.
Cari italiani, a voi il compito di emettere la sentenza. Noi vi abbiamo offerto le deposizioni dei testimoni, le ricostruzioni dei fatti, le parole dell’accusa e quelle della difesa. Ora sta a voi decidere: colpevole o innocente? Come? Inviando la risposta (inappellabile) alla suddetta Ditta A. Gazzoni & C. di Bologna. Questo il canovaccio dei radiodrammi divenuti subito popolarissimi. Liti in famiglia finite nel sangue, reduci di guerra abbrutiti dall’indigenza, agenti di polizia passati dall’altra parte della barricata... Un inesauribile campionario di varia umanità sfila nelle aule dove non manca l’ironia (la vecchietta che fa il saluto romano al presidente e si giustifica dicendo: «L’altra volta, nel 1944, quando son venuta qui \ mi hanno spiegato che bisognava salutare così»...), ma abbonda anche la pietà, a esempio per il poveraccio nullatenente tornato dal Lager che accarezza con il pensiero le ceneri della moglie e del figlioletto, morti sotto un bombardamento; dove le ragioni della Legge si scontrano con quelle della dignità umana; dove il pubblico motteggia, gli avvocati s’accapigliano, gli imputati reagiscono con veemenza o con rassegnata amarezza al dispiegarsi del dibattimento.
Poche pagine bastano a queste sceneggiature perfette, con tanto di flashback sui luoghi del delitto, per delineare, confezionate fra la testa del messaggio promozionale e la coda della raccomandazione a esprimere il proprio «voto», quelle che oggi, a oltre mezzo secolo di distanza, chiameremmo fiction e invece sono realtà. Perché Guareschi, che pochi anni dopo farà diretta conoscenza sia tribunale (con il processo per diffamazione del presidente della Repubblica Einaudi, preso in giro per le etichette dei suoi vini «senatoriali»), sia del carcere (per la diffamazione di De Gasperi), portando la giustizia nei salotti dei radioascoltatori, s’ispira alla cronaca, e persino all’autobiografia. Uno spettro aleggia ovunque, costante e mesto sottofondo di omicidi e percosse, baruffe e misteriose sparizioni: la guerra. Giovannino intinge la penna nelle macerie d’Italia che ancora fumano, nella povertà più nera, nell’apparente solidità di una borghesia che è invece traballante, retta soltanto da un perbenismo di facciata, nella voglia di riscatto ed emancipazione di chi deve costruirsi una nuova vita ripartendo da zero (il reduce che se la prende con la ragazza che gli ha soffiato il posto perché lui ha dovuto andare al fronte...).
Il «caso» che ebbe maggior successo di pubblico fu quello andato in onda il 22 febbraio del ’48. S’intitola «La rivolta di un borghese» ed è la semplice storia di un signore vittima della moglie e dei figli già adulti che vivono alle sue spalle, bamboccioni impenitenti. Il mite travet, uso a chinare sempre il capo, a subire le aggressioni verbali della sua signora che gli imputa l’impossibilità di arrivare alla fine del mese con quel misero stipendio, a un certo punto esplode. Un fulmine a ciel sereno, anzi bigio. Confessa alla consorte allibita: «Io sono nato alle ore sedici e trentacinque dell’8 marzo 1898. Oggi, 8 marzo 1948, alle ore sedici e trentacinque precise, ho buttato la penna sulla scrivania: bel colpo! È rimasta piantata diritta come un fuso, poi ho sputato sulla pagina del libro mastro e l’ho chiuso...».
Nel volumone, Carlotta e Alberto hanno raccolto, con le due serie di «Signori, entra la Corte!», le dieci puntate di «Caccia ai ricordi», commissionate a Giovannino dal Calzaturificio di Varese, che andarono in onda dal 29 marzo all’11 giugno del ’47. Si tratta di vicende contenenti alcuni accenni storici: agli ascoltatori si chiedeva di indicare l’anno in questione.

Come per «Signori, entra la Corte!», erano previsti ricchi premi per i fortunati sorteggiati che avevano indovinato.
Ebbene sì, signori della corte, la memoria storica si coltiva anche così, con qualche paio di scarpe. Lo ha insegnato uno che aveva scarpe grosse. E cervello fino.

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