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Un Giotto redivivo che dipinge la sofferta condizione umana

opo la cappella degli Scrovegni e prima della Cappella Sistina, il più importante “monumento” della pittura italiana è la cappella Brancacci nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze.
Ne sono autori Masolino e Masaccio, ma il primo con la sua eleganza, la sua misura, il suo equilibrio, non avrebbe lasciato una testimonianza così notevole e assoluta se, con lui, il giovanissimo Masaccio non avesse in alcuni episodi di quel ciclo, con le Storie di San Pietro, lasciato un’impronta così forte, di realtà e di vita. Il primo a riconoscerlo in modo definitivo e irrevocabile è il Vasari il quale, parlando di Masaccio, afferma: «Le cose fatte innanzi a lui si possono chiamare dipinte, e le sue vive, veraci e naturali». E insiste che le sue sono «figure vivissime e con bella prontezza a la similitudine del vero». Masaccio spregiudicato, innovatore, vivamente convinto della lezione di Brunelleschi, che vede all’opera eroicamente nella cupola di Santa Maria del Fiore, e di Donatello, che vede nelle sculture del campanile di Giotto, spazza via tutte le estenuazioni, le delicatezze, le effeminatezze floreali del gotico tardo; schifa Gentile e Lorenzo Monaco, artisti certamente alla moda, ma non moderni, e risale a Giotto, al Giotto severo della Cappella degli Scrovegni, che forse non ha visto ma di cui sa tutto. Lo intende perfettamente Bernard Berengson quando scrive che Masaccio «è un Giotto rinato, che ripiglia il lavoro dove la morte lo fermò». E così sia. Ma con una drammatizzazione e una potenza che Giotto non conobbe e che il delicato, femmineo, Masolino non intese, pur stando spalla a spalla di Masaccio sui traballanti ponteggi della cappella Brancacci.
In Masaccio, oltre alla folgorante visione, c’era, come e più che in Giotto, un potente assetto concettuale, un pensiero profondo, filosofico. E se è vero che Giotto non è mai illustrativo, è altrettanto vero che è spesso narrativo, efficace come un romanziere, uno scrittore per immagini. Masaccio è invece, a evidenza, un filosofo. Per lui la pittura è pensiero, che l’immagine restituisce in una sintesi figurale. Ed è un filosofo della morale, non della scienza come Paolo Uccello, o un metafisico, come Piero della Francesca. Filosofo dell’Uomo e della condizione umana, e della posizione dell’Uomo nel mondo come scelta decisiva. Perfino esistenziale. Dovessimo misurarlo con i termini del nostro tempo potremmo dire che in lui, come per Sartre, «l’esistenza precede l’essenza».
È l’opposto di quello che vediamo e pensiamo davanti a Piero della Francesca, nel quale l’essenza precede l’esistenza. Masaccio nasce a Castel San Giovanni (ora San Giovanni Val d’Arno) nel 1401. È il primogenito e ha un fratello, fesso, Giovanni, detto lo Scheggia, che ne seguì indegnamente il mestiere di pittore. Di Masaccio, invece, non si conosce l’apprendistato, pur nell’evidente precocità e lo si ritrova ventenne, prima di Masolino, presunto e improbabile maestro, iscritto all’Arte dei medici e degli speziali. Ma non c’è una buona ragione, anche sulla base dell’assoluta diversità di concezione, per escludere la presenza del più giovane nella bottega dell’amico e collega più anziano. Masaccio sarebbe stato discontinuo con tutti, come si intende alla luce degli esiti iniziali, documentati dal Trittico di San Giovenale di Regello, nel 1422. Contro il fondo oro, il giovane eversivo colloca lo schienale del trono di pietra serena, nitido, netto, con gli angeli in primo piano, inginocchiati, di spalle, a rovescio rispetto a ogni solita Maestà. La collaborazione con Masolino è dichiarata nella Sant’Anna Metterza di due anni dopo, con la Madonna risolta come una scultura di Jacopo della Quercia. E subito siamo nel lampo della vita di Masaccio, nella cappella Brancacci, nel transetto destro della chiesa di Santa Maria del Carmine. Masolino si riserva la parte più nobile, la bella e umanissima testa del Cristo, dominante al centro del Tributo. Ma Masaccio circonda la presenza divina di omacci, come una banda di briganti, paludati entro mantelli troppo ampi che non li nobilitano come eroi antichi, ma li rivelano amici e compagni del selvaggio Abacuc di Donatello.
L’umanità che Masaccio mette in scena nel grande episodio del Tributo, come nel Battesimo dei neofiti e nell’episodio di San Pietro che risana gli infermi con la propria ombra, è fatta di disperati e sotto proletari. Fratelli di spirito del Woyzeck di Büchner, un popolo di bisognosi di Dio e dei suoi apostoli, che spera e crede nei miracoli. Nessun pittore aveva, prima di Masaccio, restituito questa condizione di diseredati, di vinti, la cui vera disperazione, ben prima dell’Urlo di Munch, è rappresentata dal pianto inconsolabile di Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso terrestre. Masaccio è il primo pittore che vede l’Uomo nella sua miseria e ne rappresenta, senza consolazioni e protezioni (neppure divine), il dolore.

Il suo Dio non scende dal cielo distribuendo miracoli e grazia ma è uomo tra gli uomini, e quando Masaccio deve dipingere il volto buono e misericordioso di Cristo lo affida a Masolino, animo gentile e timorato. Masaccio è il pittore della condizione umana.

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