Gian Marco Chiocci - Patricia Tagliaferri
Roma - Contributi regolarmente contabilizzati, certo, ma «indotti dall’uso strumentale di un potere pubblico» qual è quello dell’Autorità portuale di Napoli già guidata da Francesco Nerli, l’uomo di D’Alema nella Fondazione Italiani Europei. Versamenti chiesti senza bisogno di formulare alcuna minaccia, nemmeno velata: bastava lo stato di soggezione degli imprenditori a convincerli a mettere mano al portafogli per finanziare le cene elettorali di Massimo D’Alema, Piero Fassino e Antonio Bassolino. Una prassi che nella carte viene assimilata all’intimidazione mafiosa.
È durissimo l’atto di accusa - poi confluito nel processo - con cui il gip Daniela Fallarino aveva disposto il divieto di dimora nella regione Campania per Nerli e la sua segretaria Vita Convertino, alla sbarra per concussione aggravata in concorso per aver incassato contributi dai 5 ai 25mila euro dai titolari delle società che lavoravano nel porto per non avere problemi con concessioni e progetti. Il ruolo di Nerli nell’inchiesta napoletana è nuovamente all’attenzione dei magistrati romani che indagano sull’attività di lobby di Vincenzo Morichini, il braccio destro di D’Alema. Tra gli appalti sospetti presi in esame dai finanzieri che stanno effettuando verifiche sulle società in affari con il socio di barca di Baffino, infatti, c’è n’è uno del 2008 (anno in cui Nerli entra in Fondazione) tra la Electron Italia srl e l’Autorità Portuale di Napoli all’epoca presieduta proprio da Nerli, per un importo che sfiora gli otto milioni di euro. In quegli stessi anni, indagando su presunte illegittimità nell’assunzione di personale, la Finanza scovò per caso negli uffici dell’Autorità Portuale di Napoli, e precisamente nella scrivania della segretaria del capo, un blocchetto di ricevute «Ds» con una sfilza di versamenti di importi variabili fra i 250 e i 2.500 euro sotto la dicitura «sottoscrizione cena elettorale». Vita Convertino si affrettò a spiegare che nel blocchetto erano annotati finanziamenti regolari al partito e che gli stessi non avevano nulla a che fare con l’attività dell’Autorità Portuale. Peccato, però, che gli investigatori accerteranno che gli indagati per ottenere i finanziamenti, tra l’altro da imprenditori che non avevano alcun interesse nella politica, «non hanno speso il proprio ruolo o la propria convinzione politica, ma la propria qualità pubblica, prospettando la richiesta non come proveniente dal partito, ma dall’organo pubblico che essi rappresentavano». Gli inquirenti ritengono significativo anche il fatto che «le quietanze relative ad alcuni di questi contribuiti siano state consegnate in una busta contenente l’intestazione dell’Autorità Portuale di Napoli». Secondo l’accusa questi finanziamenti «lungi dall’essere espressione di una scelta del privato, sia pure dettata da ragioni opportunistiche, sarebbero stati “indotti” dall’uso strumentale di un potere pubblico», quello dell’Autorità Portuale e per essa del suo presidente «il quale attraverso i suoi più stretti collaboratori avrebbe “abusato” della sua qualità e dei suoi poteri per ottenere contributi in favore del suo partito di riferimento». Per i pm, insomma, queste società invitate a sborsare denaro erano in una «particolare ed accentuata situazione di soggezione» derivante dai poteri di vita e di morte del presidente dell’Autorità. Il modus operandi degli indagati viene equiparato dal gip ad un comportamento estorsivo. «Così come in un determinato territorio tanto più sono note la forza e la capacità militare di un’organizzazione di tipo mafioso e la sua capacità di assoggettamento, tanto meno è necessario, ai componenti del sodalizio, ricorrere alla minaccia e alla violenza per ottenere ingiusti vantaggi».
Allo stesso modo, nel caso della concussione, «tanto è più stringente la supremazia del pubblico ufficiale verso il privato, e quindi la potenzialità di incidere del primo sulla posizione del secondo, tanto meno sarà necessario al pubblico ufficiale ricorrere a minacce per indurre il privato ad eseguire la dazione».
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