
Pace. La riforma fiscale che sta faticosamente portando avanti questo esecutivo con Giorgia Meloni, il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti e il suo sottosegretario Maurizio Leo ha il sapore di un armistizio tra due contendenti, l'un contro l'altro armati in una guerra civile iniziata più di cinquant'anni fa con la riforma firmata da Bruno Visentini che introdusse l'Irpef. «È cosa risaputa che i contribuenti combattano una diuturna, incessante battaglia contro il fisco - scriveva l'economista Luigi Einaudi, prima governatore della Banca d'Italia e poi presidente della Repubblica - ed è nella coscienza di tutti che la frode fiscale non potrà essere davvero considerata alla stregua degli altri reati finché le leggi tributarie rimarranno, quali sono, vessatorie e pesantissime».
In tutti i recenti mini cicli di crisi economica (2008, 2011, post Covid) gli imprenditori e gli italiani sono stati messi di fronte a un bivio: mangiare o pagare le tasse, erogare gli stipendi o onorare le imposte, come un costo del lavoro inutilmente strabordante dal lato delle imprese. La battaglia della sinistra contro chi era costretto nell'angolo contro la sua volontà ha partorito la tragica e malata stagione malata di Equitalia, la cui eredità è un magazzino fiscale di 1,32 miliardi di euro sostanzialmente inesigibile o quasi. Oggi si parla di concordato biennale, di un gentlemen's agreement in nome dello sviluppo, di una compliance che mette i due contendenti alla pari, con i commercialisti mai così centrali in questa nuova stagione di dialogo.
Siamo passati dalle 32 aliquote fiscali del 1974 - dal 10% al 72% del reddito - alle tre attuali: 23% fino a 28mila euro, 35% fino a 50mila e 43% oltre 50mila, con l'obiettivo di legislatura di limare l'aliquota centrale al 33% e/o una soglia a 60mila euro. Non è vero, come dice qualche esperto a caccia di visibilità, che le tre aliquote non garantiscano la proporzionalità della capacità contributiva garantita dall'articolo 53 della Costituzione. Anzi, per Einaudi «le sottili arti della frode sono l'unica difesa contro le esorbitanze del fisco e ad esse si deve se qualcosa si ottenne in materia di minorazioni di aliquote...».
Chi ha demonizzato l'evasore, considerandolo il nemico pubblico numero uno, ha equiparato i furbetti sconosciuti all'Erario a chi ha scelto di rimandare pagamenti che avrebbe voluto onorare e per questo è stato ingiustamente umiliato e mortificato davanti all'opinione pubblica. Il messaggio di pacificazione ha invece innescato un circuito virtuoso che ha portato a un aumento del gettito e dei proventi della lotta all'evasione fiscale, alla faccia dei gufi. Lo dimostra il tesoretto del concordato biennale. Qualunque cosa decida la maggioranza, se destinarlo alla sanatoria delle cartelle chiesta dalla Lega o all'abbassamento dell'Irpef a regime, il beneficio per il ceto medio finora vessato da riforme sbagliate e dannose sarà importante.
Secondo Einaudi lo Stato «dovrebbe riflettere se
non convenga di ridurre le aliquote per indurre i contribuenti a miglior consiglio o per scemare il premio della frode». Ed è quello che sta facendo l'esecutivo per chiudere i conti. Quelli pubblici e quelli con la Storia.