Il ruolo del Colle tra toghe e governo

Meloni non chiede l'abolizione del rischio: chiede l'equilibrio tra controllo e libertà, tra critica e lealtà, tra il diritto di criticare e il dovere di non diventare l'ago di una serratura

Il ruolo del Colle tra toghe e governo
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In un'epoca in cui le battaglie politiche si combattono con tweet, clickbait e decalcomanie di retorica, Giorgia Meloni avanza come una comandante ferma sull'aia del potere. Non è una guerra qualunque: è quella in cui il nemico non è solo un partito avversario o una legge da piegare, ma la grammatica stessa della stampa e della magistratura, armate fino ai denti di sentenze, editoriali e dossier che sembrano leggere il futuro al posto dei giudici. Meloni arriva al confronto con la corazza dei suoi slogan, la voce alta e la determinazione di chi sa che la realtà non si piega ai sussurri del conformismo. Il problema, però, è che l'alleato storico il capo dello Stato sembra aver scelto la tribuna di riguardo, il cappuccino in mano, e un ruolo da commentatore più che da generale in campo. E qui, senza troppa teatralità, si capisce che la vera battaglia non è contro un partito o una riforma: è contro l'idea stessa di un potere che pretende di scrivere la storia a colpi di comunicati.

Nella narrativa di Repubblica e di quegli editoriali che amano pigiarsi sul pedale del moralismo, Meloni è dipinta come l'elemento destabilizzante di una macchina istituzionale perfettamente oliata. Non c'è solo una battaglia politica: c'è una guerra di posizionamento, di reputazione, di narrazione. La vera linea di fuoco non è tra destra e sinistra, ma tra chi sostiene una certa stabilità e chi ritiene indispensabile mettere in discussione l'ordine instaurato. In questo scenario, Meloni non è una fisarmonica suonata al rallentatore: è una spada che brilla, ma che avrebbe bisogno di una spalla che non tremi.

E qui entra in scena l'elemento sorprendente: il capo dello Stato, invece di scendere in campo come un vero alleato, sembra preferire la figura del sopralluogo, del giudice che osserva da lontano, del genitore che applaude ma non incita. Sarebbe facile derubricare questa distanza come cautela istituzionale, ma non è così: è una scelta narrativa. Una scelta che per qualcuno suona come prudenza, per altri come latitanza. In ogni caso, Meloni resta armata: le sue parole si fanno scudi, i suoi discorsi diventano incudine e martello contro una magistratura che, in questa lettura, tenta di cannibalizzare tutte le altre istituzioni, fagocitando equilibri che invece dovrebbero resistere all'assalto della tempesta. È un'immagine forte, forse provocatoria, ma utile per capire il senso di una guerra che non è solo di potere, ma di identità.

Eppure è proprio questa dinamica che rende Meloni una protagonista credibile: ha ragione, perché descrive una realtà in cui la tutela delle prerogative sovrane dello Stato non è un optional, ma una necessità. Non si tratta di idolatria o di populismo, ma di una verifica critica della funzione pubblica: quanto potere può davvero detenere un sistema se la magistratura ne diventa l'elemento di rottura? E se la risposta è «non tutto il potere deve restare in mano a una sola figura o a una sola branca», allora la strategia di Meloni appare non solo legittima, ma persino necessaria per evitare l'ingrossarsi di un compromesso che minerebbe la fiducia nelle istituzioni.

Toccasse al Quirinale domare l'aggressore, come una guardia reale chiamata a spegnere l'incendio prima che divampi, questa guerra troverebbe una chiave possibile: una leadership capace di mediazione ferrea, ma anche di segnare limiti chiari. L'idea non è smontare la magistratura o la stampa sarebbe un suicidio politico e democratico ma riportarle dentro una cornice di responsabilità condivisa. Meloni non chiede l'abolizione del rischio: chiede l'equilibrio tra controllo e libertà, tra critica e lealtà, tra il diritto di criticare e il dovere di non diventare l'ago di una serratura.

In questa saga, la protagonista resta Meloni: armata fin nei denti, pronta a rispondere a ogni colpo, a ogni editoriale presuntuoso, a ogni sentenza che percepisce come un attacco. L'epilogo non è scritto: dipende dalle mosse del Quirinale, dall'elasticità della magistratura e dalla capacità della stampa di trattare il dibattito pubblico con onestà, non con vendetta. Se c'è una verità che merita di essere gridata, è questa: Meloni ha ragione nel rivendicare una cornice di stabilità e nel chiedere che la lotta contro l'estraneità delle élite non diventi una distruzione delle basi stesse su cui si regge la Repubblica.

E nel frattempo, tra spettacolo e serietà, continueremo a seguire questa soap opera politica, con popcorn in mano e una voce che, nonostante tutto, crede al valore della discussione aperta e della responsabilità condivisa, finché la musica non cambia, finché non si spengono le luci sull'arena.

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