La grande fuga dalle ombre cinesi

Luca Crovi

Per tutta la vita lo scrittore americano Philip K. Dick ebbe un'attenzione ossessiva, morbosa, viscerale, protettiva nei confronti dei suoi testi. Negli anni Settanta arrivò persino a rinchiudere in un'enorme cassaforte d'acciaio, che occupava un'intera parete di casa sua, tutti i manoscritti, le veline, gli appunti, i rendiconti della spesa. Tutto tenuto rigorosamente chiuso e protetto dalla segreta combinazione che lui solo conosceva.
Immaginatevi quanto rimase sconvolto Dick quando il 17 novembre 1971 trovò letteralmente sventrata la sua cassaforte. Qualcuno aveva fatto irruzione in casa e l'aveva fatta saltare con esplosivo al plastico. La casa era stata messa a soqquadro e Dick denunciò immediatamente il fatto alla polizia, sostenendo che si trattava dell'ennesima operazione attuata dalla Cia nei suoi confronti.
Da anni lo spiavano e cercavano qualsiasi elemento che potesse dimostrare che era un sovversivo comunista: Dick era ormai ossessionato da quest'idea. Naturalmente, la polizia non gli credette, soprattutto perché dalla casa dello scrittore non era stato rubato nulla, a eccezione di pochi prodotti alimentari. Ovviamente le ossessioni che da tempo minavano il povero Dick aumentarono e nessuna ulteriore indagine fu svolta su quanto era accaduto.
Da appassionato di gialli e misteri mi piace però immaginare che il grande narratore di fantascienza non si fosse accorto del trafugamento di un piccolo dattiloscritto giovanile del quale probabilmente non si ricordava e che tuttavia conteneva materiali estremamente pericolosi per lui. Sto pensando a Gather yourselves together, un romanzo breve risalente forse al '52 e che per ragioni ignote venne pubblicato soltanto nel 1994 da una piccola casa editrice antiquaria americana, la WCS Books che ne fece un'edizione a tiratura limitata. Un libro che approderà il 2 marzo nelle librerie italiane nella nuova edizione realizzata dalla Fanucci Editore che ha scelto di cambiare il titolo originale (che letteralmente potrebbe essere tradotto con «Ricomponetevi» o «Radunatevi assieme») con l'azzeccatissimo Il paradiso maoista,
Già dal titolo capirete perché la Cia avrebbe potuto essere molto interessata a leggere questo testo prodotto da Philip Kendred Dick. Un volume ambientato nella contemporanea Cina comunista non poteva che essere considerato pericoloso o comunque «da controllare» e facilmente avrebbe portato all'apertura di uno dei tanti dossier d'indagine dedicati allo scrittore. Il paradiso maoista uscirà in Italia proprio il giorno del venticinquesimo anniversario della sua scomparsa e inaugurerà una nuova riedizione da parte di Fanucci (da anni promotore dell'opera dickiana) di 24 opere dell'autore statunitense che saranno arricchite da nuove copertine disegnate da Antonello Silverini e da accurate introduzioni di Carlo Pagetti.
All'epoca in cui scrisse Il paradiso maoista Dick aveva probabilmente 24 anni, non era ancora diventato a tempo pieno uno scrittore di fantascienza e cercava di sbarcare il lunario, più che con i racconti, lavorando in un negozio di tv e hi-fi dove l'unica sua consolazione era l'avere a che fare quotidianamente con la musica e i dischi, passione che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita e che avrebbe spesso sottolineato nelle sue opere. Il paradiso maoista è una delle sue prime prove narrative, un romanzo realistico che ha un impianto sociale e politico molto chiaro.
Siamo nel 1949 nella Cina postrivoluzionaria dove tre americani, Verne Tildon, Barbara Mahler e Carl Fitter, si trovano a dover presidiare lo smantellamento della sede di un'azienda americana da tempo trapiantata in terra cinese. Come ben sottolinea Pagetti nell'introduzione al volume, l'atmosfera di disagio e di inquietudine che pervade il romanzo è molto forte e presenta molte delle caratteristiche di un certo tipo di romanzo postbellico americano. «I tre "eroi" di Il paradiso maoista - spiega Pagetti nell'introduzione - sono paragonabili a soldati smobilitati e costretti a lasciare una poderosa base militare costruita in Cina (in realtà un grande impianto industriale), non senza aver passato le consegne - mentre i loro compagni sono già partiti per far ritorno negli Stati Uniti - agli abitanti del posto, che sono poi i soldati dell'esercito rosso di Mao in procinto di prendere il potere, dispregiativamente chiamati yuks»,
I nostri eroi si trovano a essere letteralmente «stranieri in terra straniera», rinchiusi in un luogo alieno che è l'ex sede della Compagnia che nella descrizione di Dick appare come uno strano incrocio fra un pianeta perduto e un'astronave abbandonata. Un luogo spettrale e desolante dove svettano i giganteschi pilastri di vecchie costruzioni distrutte da una catastrofe naturale e poi inglobati all'interno dello stabilimento Usa. Qui, in mezzo alla nebbia serale si aggirano ancora per pochi giorni i fantasmi degli ultimi operai che stanno per abbandonare la sede della Compagnia e si apprestano a tornare negli Stati Uniti, fino a che Verne, Barbara e Carl resteranno gli unici esseri viventi rinchiusi in quel luogo che andrà definitivamente evacuato. E sempre Paggetti ci spiega come «la cronaca dei pochi giorni di intervallo, in cui i tre sono i padroni assoluti d'una sorta di deserto - o di paradiso - a loro completa disposizione, costituisce il nucleo maggiore del romanzo dickiano, che si sviluppa in un paesaggio carico, di volta in volta, di connotazioni interiori o metafisiche, popolandosi delle immagini della memoria, e dell'esplorazione del passato, in cui soprattutto Barbara e Verne sono imprigionati».
L'attesa alla fine diventerà insostenibile e i rapporti fra i tre protagonisti progressivamente muteranno, tanto che alla noia si sostituirà un sentimento forte di angoscia e crisi di identità per la situazione quasi irreale che stanno vivendo.

Una situazione soffocante proprio perché realistica, più terribile di quelle che avrebbe potuto descrivere Dick se avesse deciso di raccontare che in mezzo a quel terzetto si nasconde in realtà uno Screamer o un Replicante in attesa solo di essere riattivato.

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