Q ualcosa è restato degli anni Ottanta, almeno nell'arte. A trent'anni dall'esordio dei paninari, del «Drive In», di film come «Marrakech Express», dei primi cinepanettoni, del Bomber e dei vestiti confetto della Naj Oleari, non è più possibile liquidare gli anni Ottanta (quelli della «Milano da bere») solo con una battuta, solo con un pregiudizio. Gli anni dell'eccesso, dei capelli cotonati, delle spalline imbottite, delle canzonette di Arbore in tv la notte, gli anni dell'ottimismo e del buon umore troppo spesso sono stati relegati a un periodo vacuo e superficiale. Complice forse un po' di nostalgia, oggi si è imparato a guardare in modo nuovo al decennio successivo alle ideologie degli anni Settanta e precedente all'individualismo anni Novanta. Nel mondo dell'arte, ad esempio, gli sbeffeggiati e sottovalutati anni Ottanta sono ormai concordemente considerati dai critici come una stagione di forte rinnovamento. Lo ha dimostrato bene una mostra chiusa il mese scorso al Serrone della Villa Reale di Monza e curata da Marco Meneguzzo che quel periodo l'ha vissuto in prima persona: gli anni Ottanta dell'arte cullarono le opere di Schifano, di Basquiat, di Keith Haring, di Schnabel, della Transavanguardia italiana e dei graffitari statunitensi, passando per quegli irriducibili estrosi dei Young British Scultures. Se oggi li ricordiamo ancora, lo dobbiamo alla loro capacità di rifuggire il concettuale e il minimale, per tornare a un'arte popolare perché adatta alla gente, in grado di rappresentare uno stile di vita (comprensibile), non l'indecifrabile stato d'animo del singolo. E se sulla cultura di quel periodo continuano a fiorire libri, non stupisce che anche i giovani artisti di oggi abbiano voglia di capire «che cosa resterà di questi anni Ottanta», tanto per parafrasare la celebre canzone di Raf.
Lo sta facendo in questi giorni il milanese Francesco De Molfetta alla The Don Gallery nella mostra «New Idols» (in via Cola Montano 15, fino al 25 aprile, ingresso libero). Nella galleria dell'Isola che è solita prestare attenzione alle espressioni meno commerciali dell'arte contemporanea, trova ora spazio l'estro di un giovane (classe 1979) che ci restituisce i miti degli anni Ottanta opportunamente rivisitati e corretti in chiave contemporanea. ET anziché alzare il dito per chiamare casa si soffia il naso e si trasforma in una statua bronzea dall'aria goffa e impacciata dal titolo «Etcì». Batman ci accoglie all'ingresso della mostra, ma è talmente grasso che non riesce a volare e preferisce mangiarsi un cono gelato: diventa così «Fatman», letteralmente, l'uomo grasso. Gli anni Ottanta furono il periodo d'oro dei cartoni animati giapponesi, del «dolce forno Harbert», del pallone Supertele, di «Arnold», «Chips» e «Hazard», di Wonder Woman e MacGyver, del ping pong e del cubo di Rubik, tornato peraltro in auge dopo la sua ricomparsa sul grande schermo nel film «La ricerca della felicità» di Gabriele Muccino. In mostra, rielaborati sottoforma di sculture, troviamo tanti di questi miti, come una rappresentazione di King Kong che non fa paura a nessuno perché preferisce mangiarsi una banana piuttosto che spaventare la bionda Jessica Lange che giace ai suoi piedi.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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