Guerra Microsoft-Google e l’amministrazione Bush

Nella battaglia legale che vede contrapposti il motore di ricerca e il colosso di Redmond spunta un memo che proviene dal Dipartimento di Giustizia. E scoppiano le polemiche

Guerra Microsoft-Google e l’amministrazione Bush

L’amministrazione Bush è troppo tenera con Bill Gates? Il sospetto lo diffonde il New York Times, per bocca del giornalista Stephen Labaton, che incappa in uno scoop che negli Stati Uniti già si chiama “Memogate”. Facciamo un passo indietro: come in molti sanno, tra le novità di Windows Vista c’è la funzione per la ricerca dei file sul desktop: veloce ed efficiente, non è nemmeno lontanamente imparentata con la farraginosa e lentissima ricerca di file del predecessore Windows Xp. Inoltre la ricerca di Vista è strettamente integrata con il cuore del sistema operativo, il che per l’utente è una gran comodità, visto che i file cercati vengono trovati in un batter d’occhio. Ma per Google è una dannazione: chi mai userà Google Desktop se la ricerca di Vista è così intrigante?

«Il box di ricerca integrato in Vista è strettamente collegato ai prodotti di ricerca Microsoft. Non c’è modo per gli utenti di scegliere una soluzione alternativa. Windows Vista, inoltre, rende complicata la chiusura dell’indice di ricerca Microsoft», scrive Ricardo Reyes di Google. Così, un annetto fa Google aveva inviato una nota riservata alle corti di giustizia americane, chiedendo di far luce su quello che il motore considera un comportamento anticompetitivo. Una pratica legittima, quella di Google: roba di ordinaria amministrazione per le grandi aziende americane. La stessa Microsoft aveva fatto grosso modo lo stesso lo scorso aprile, chiedendo alle autorità di fare le pulci sull’acquisizione di DoubleClick da parte della stessa Google.

Quello che è un po’ meno usuale è che il giornalista del New York Times ha scoperto che il capo dell’antitrust del Dipartimento di Giustizia americana, l’assistente procuratore generale Thomas O. Barnett, ha mandato un memo (ed ecco il famoso “Memogate”) in cui invitava i giudici a rigettare le lamentele di Google nei confronti di Microsoft. Insomma, l’amministrazione Bush ha preso una posizione netta su una faccenda che sembrerebbe riguardare più le pratiche commerciali quotidiane che non l’alta politica. Se ci aggiungiamo che Barnett ai tempi dell’amministrazione Clinton faceva parte dello studio legale Covington & Burling, difensori della stessa Microsoft, ecco che il quadro si delinea e il governo rischia una figuraccia. Anche se, a onor del vero, Barnett in persona non ha mai lavorato alle cause legali che coinvolgevano il gigante di Redmond quando esercitava la professione di avvocato, e dopo essere passato al Dipartimento di Giustizia si è chiamato fuori da tutte le cause antitrust che vedevano coinvolta Microsoft, per evitare qualsiasi sospetto di conflitto d’interessi. E la stessa Microsoft ha dichiarato di non essere mai stata informata del memo incriminato.

I tempi sono cambiati?
Al di là dell’opportunità, tanto etica quanto politica, del memo di Barnett, va ricordato che l’amministrazione Bush in passato non ha avuto la mano particolarmente pesante nei confronti di Microsoft. Anzi, fu durante la presidenza di Clinton che Microsoft rischiò di essere suddivisa in per due tronconi, allo scopo di renderla meno aggressiva sul mercato. Una sorte alla quale scampò grazie a una sentenza della corte d’appello, emessa quando al timone della superpotenza c’era già Bush. Non tutti sono pronti a mettere la mano sul fuoco sul fatto che si è trattato solo di una coincidenza. Curiosamente, lo stesso Linus Torvalds, l’inventore di Linux e da molti considerato acerrimo nemico di Microsoft, a suo tempo si schierò contro lo smembramento del colosso: «Da un lato trovo l’idea dello smembramento interessante. D’altro canto, non sono sicuro che sarebbe una buona idea: un po’ di paura della legge è salutare per Microsoft».

Per chiudere il caso, nel 2002 (col consenso del giudice che doveva dirimere il caso, la signora Colleen Kollar-Kotelly) Microsoft ha siglato il “Consent Decree”, che stabilisce alcuni limiti che Microsoft si impegna a rispettare per non soffocare i competitor: tra l’altro, Microsoft non può progettare sistemi operativi che limitino le scelte degli utenti. Secondo Google, proprio il fatto che non si possa chiudere facilmente l’indicizzazione del motore di ricerca di Vista metterebbe fuori gioco il suo Desktop Search: due programmi pesanti di indicizzazione che lavorano contemporaneamente su un solo computer finiscono col rallentarlo eccessivamente, scoraggiando chi vuole usare il software di Google. E questo, chiosa il motore, è una violazione del Consent Decree.

Barnett difende il suo operato nella recente querelle tra Google e Microsoft: «Lo scopo del Consent Decree è prevenire e proibire a Microsoft alcuni comportamenti che escludono la concorrenza, azioni che sono per loro natura anti-competitive. Ma non deve stabilire a priori chi vince e chi perde, o determinare chi deve avere quale fetta del mercato».

Harry First, che ricopriva la carica di capo dell’antitrust dello Stato di New York ai tempi di Clinton, spiega così la linea morbida dell’amministrazione Bush nei confronti di Microsoft: «L’attuale amministrazione è molto conservatrice e poco preoccupata dei comportamenti dominanti di una singola azienda».

Ma c’è anche chi ritiene che la filosofia dell’amministrazione Bush sia una presa d’atto che i tempi siano cambiati: oggi il dominio sulla società dell’informazione non passerebbe più dalla conquista del desktop ma per quella di Internet, dove tutti sappiamo che l’azienda dominante non è Microsoft ma Google.

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