
Scavato in profondità nel cuore di una montagna a circa 32 chilometri da Qom e 160 da Teheran, il sito nucleare di Fordow rappresenta da anni il centro nevralgico del programma atomico della Repubblica Islamica. Insieme a Natanz, è uno dei due impianti chiave per l’arricchimento dell’uranio, ma a differenza di altri siti, Fordow è stato concepito fin dall'inizio come una fortezza sotterranea: invisibile, inaccessibile e quasi indistruttibile.
Fordow torna alla ribalta
In questi giorni, l’attenzione è tornata su Fordow dopo l'attacco aereo attribuito a Israele. Immagini satellitari pubblicate dalla società statunitense Planet Labs sembrano mostrare danni minori a una porzione esterna del sito: forse il crollo di un muro di contenimento lungo una strada laterale. Subito dopo, è stata registrata una scossa sismica di magnitudo 2.5 con epicentro a Qom, alimentando ipotesi su un legame tra l’offensiva militare e l’evento geologico.

Operativo dal 2011, Fordow fu però rivelato al mondo già nel 2009 da fonti dell’intelligence occidentale. Sin da subito, le sue caratteristiche tecniche e logistiche – compresa la sua localizzazione protetta – suscitarono diffidenze. Anche Russia e Cina, tradizionalmente più indulgenti nei confronti dell’Iran, espressero preoccupazioni. All'epoca, Teheran giustificò l’arricchimento al 20% con esigenze mediche legate alla produzione di isotopi. Ma il sospetto internazionale era che si trattasse di un passo intermedio verso l’uso militare.
Nel quadro dell’accordo nucleare del 2015 (JCPOA), l’Iran accettò di sospendere le attività a Fordow per 15 anni, mantenendo l’arricchimento entro il limite del 3,67%. Tuttavia, il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo nel 2018 cambiò lo scenario. Teheran riavviò il sito e nel 2023 l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) rilevò la presenza di uranio arricchito fino all’83,7%. L’ultimo rapporto dell’AIEA documenta un livello attuale del 60%, sufficiente, con un ulteriore processo, a produrre fino a nove ordigni nucleari.
Un sito inespugnabile e "simbolico"
Il simbolismo di Fordow, per Teheran, va oltre l’aspetto strategico. L’area circostante ha avuto un ruolo storico nella guerra contro l’Iraq ed è prossima alla città santa sciita di Qom. Ma oltre alla memoria, conta la funzione: è qui che l’Iran ha collocato parte delle centrifughe IR-1 e IR-6, in tunnel scavati tra i 90 e i 100 metri di profondità, secondo una stima del Royal United Services Institute (RUSI) britannico.
“Senza neutralizzare Fordow, la capacità dell’Iran di sviluppare materiale fissile per scopi bellici resta intatta”, ha affermato Brett McGurk, ex coordinatore della Casa Bianca per il Medio Oriente, in un’intervista al Telegraph. Il sito è ormai percepito come il cuore della sfida nucleare iraniana, ma anche come un bersaglio apparentemente fuori portata.
Yechiel Leiter, ambasciatore israeliano, è stato esplicito: “L’operazione non sarà conclusa finché Fordow non verrà eliminato”. Ma l’ostacolo è tecnico: Israele non dispone dei mezzi necessari per distruggere l’impianto. Le bombe GBU-31 e GBU-28 usate in passato contro Natanz e Isfahan non sono sufficienti. L’unico ordigno in grado di colpire Fordow è la GBU-57A/B Massive Ordnance Penetrator, una bomba da 14.000 kg capace di attraversare fino a 61 metri di cemento armato, utilizzabile solo dai bombardieri strategici B-2 degli Stati Uniti.
Perché è complesso "prendere" Fordow
Da qui, il paradosso di Fordow: gli Stati Uniti hanno la capacità di colpirlo, ma non la volontà politica; Israele ha la volontà, ma non i mezzi. Una tensione latente che, secondo alcuni osservatori, rischia di innescare nuove dinamiche di proliferazione nella regione. A rendere Fordow ancora più inespugnabile è la combinazione di difese passive e attive. Alle gallerie blindate si aggiungono barriere fisiche, pattugliamenti dei pasdaran e misure anti-infiltrazione. Un reportage del New York Times aveva ipotizzato in passato che un attacco aereo potrebbe essere seguito da un’incursione delle forze speciali israeliane, come già avvenuto in Siria nel marzo scorso, quando truppe d’élite colpirono un impianto sotterraneo a Maysaf.
Ma Fordow non è solo un bunker: è un messaggio. Un avvertimento di resistenza e autodeterminazione fino al baratro. Eppure, proprio negli ultimi mesi, incidenti, errori e possibili fughe di informazioni suggeriscono che la macchina della sicurezza iraniana potrebbe non essere più impenetrabile come un tempo.
In un contesto regionale segnato da instabilità cronica, l’“invulnerabile” Fordow rimane il simbolo della posta in gioco: controllo dell’arricchimento nucleare, equilibrio strategico e, soprattutto, la linea rossa mai completamente cancellata tra deterrenza e confronto diretto.