Il mondo arabo si compatta. Rischio di scontro con Israele

Donald incontra i leader islamici, delusi dall’attacco in Qatar e timorosi delle conseguenze del conflitto

Il mondo arabo si compatta. Rischio di scontro con Israele
00:00 00:00

Fino al 1979 era la guerra «arabo israeliana». Dopo gli accordi di pace tra Israele ed Egitto del 1979 - seguiti da quelli con la Giordania e cinque anni fa dagli accordi di Abramo con Emirati e Bahrain - c'eravamo abituati a chiamarla «questione palestinese». Ma proprio mentre Donald Trump approfitta dell'Assemblea Onu per presentare un piano di pace per Gaza ai leader di otto paesi arabi e musulmani (Qatar, Arabia Saudita, Pakistan, Egitto, Giordania, Indonesia, Emirati Arabi e Turchia) la vecchia definizione torna prepotentemente attuale. A farla riaffiorare dal passato contribuiscono - oltre agli orrori di Gaza e allo svanire del principio dei «due popoli e due stati» - le conseguenze di quel raid su Doha con cui il governo Netanyahu ha provato ad eliminare la dirigenza di Hamas. Quel raid ha trasmesso al mondo arabo due messaggi inquietanti. Il primo è che neppure un ruolo da mediatori nella questione ostaggi mette al riparo dalle bombe di Netanyahu. La seconda è che quell'immunità non è più garantita neppure da quella potenza americana con cui Qatar, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi e Giordania hanno stretto patti di alleanza militare. E le conseguenze si vedono.

La scorsa settimana, durante l'incontro dei leader arabi a Doha, il presidente egiziano Abdel Fattah el Sisi ha definito Israele «un nemico». Un termine che nessun suo predecessore aveva mai usato dopo gli accordi di pace del 1979. E questo mentre Israele denuncia la mobilitazione di oltre 40mila soldati egiziani nel Sinai, una presenza doppia rispetto al limite previsto dagli accordi di Camp David.

Alla frontiera tra Israele e Giordania il clima non è migliore. Amman, a due anni dal ritiro del proprio ambasciatore da Tel Aviv, guarda con crescente nervosismo al rischio di un'annessione della Cisgiordania. E a un conseguente esodo palestinese sui propri territori. In tutto ciò, il 17 settembre scorso l'Arabia Saudita ha siglato un patto di «difesa strategica» con il Pakistan, una potenza nucleare in ottimi rapporti con Pechino. Quel patto - oltre a prevedere la mutua difesa in caso di attacco da parte di Paesi terzi - evidenzia la crescente sfiducia nell'alleato Usa. E nell'ambito delle alleanze a geometrie variabili non va trascurato il ruolo sempre più ambiguo della Turchia di Recep Tayyp Erdogan. Una Turchia che ricopre oggi l'inconciliabile ruolo di membro della Nato e di principale alleato della Siria su un confine con Israele dove il rischio di uno scontro militare è all'ordine del giorno. Un'ambiguità confermata ieri dalle dichiarazioni di Erdogan pronto a ribadire a Fox News di non considerare Hamas un'organizzazione terrorista. Insomma tutti elementi che rendono assai fragile la leadership statunitense nella regione e spingono probabilmente l'amministrazione Trump a proporre ai leader islamici incontrati alle Nazioni Unite un piano di pace per Gaza.

Il piano - basato sull'intervento di una forza di pace araba e il disarmo di Hamas - prevede la creazione di un governo provvisorio e la ricostruzione della Striscia grazie agli investimenti delle otto nazioni. Ma il primo a dire «no» potrebbe essere Netanyahu. Rendendo ancor più insistente il rischio di uno scontro tra lo Stato ebraico e l'intero mondo arabo.

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica