Non abbandonare gli sconfitti

Liberare il potenziale dell'Iran, proteggerlo all'inizio e poi lasciarlo camminare da solo: questa è la posta in gioco

Non abbandonare gli sconfitti
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Ali Khamenei ha abdicato. I conflitti moderni, però, non si vincono solo sul campo. Il verdetto delle armi è solo un preambolo. Ciò che conta davvero è la capacità di governare il disordine che segue. Lo hanno dimostrato vent'anni di guerre occidentali - dall'Irak a Gaza - tutte perse nel dopoguerra. La lezione vale oggi più che mai, nel confronto tra Israele e Iran. La vera sfida è politica: gestire la transizione, evitare che l'auspicabile sconfitta di Teheran si trasformi in caos permanente.

L'Irak doveva diventare un laboratorio di democrazia nel cuore del Medio Oriente. Al di là delle affermazioni sulla presenza di armi di distruzione di massa rivelatesi infondate, il cambio di regime a Baghdad aveva una sua logica: disinnescare la saldatura tra jihadismo e baathismo radicale. Ma la gestione del dopoguerra fu disastrosa. L'epurazione del ceto dirigente iracheno decapitò ogni possibilità di una continuità istituzionale. Trapiantare la democrazia su un terreno devastato dalla guerra e privo di un tessuto civile segnò il fallimento del nation building.

In Israele, Ariel Sharon aveva intuito che uscire da Gaza unilateralmente avrebbe potuto cambiare il corso della storia, aprendo uno spiraglio alla pace. Lo fece sul serio e con grande audacia. Sgomberò i coloni con l'esercito, spaccò il Likud. Accettò di pagare un prezzo molto alto. Il suo successore, però, interpretò diversamente il day after. Niente pluralismo, nessuna strategia per la transizione palestinese, Gaza abbandonata a sé stessa. Risultato: un ghetto armato in mano ad Hamas, diventato epicentro del terrore e della radicalizzazione.

Ora il teatro si sposta sull'Iran. Lo spartito è, però, simile. Il regime teocratico è duro, oppressivo, violento. Utilizza la repressione. Si regge sui pasdaran e su un'élite all'apparenza ancora compatta. Eppure, al di sotto, pulsa una società civile sofisticata, urbanizzata, colta. Una delle più affini all'Occidente dell'intero mondo islamico. Lo raccontano il cinema, la letteratura, le piazze in rivolta per la libertà e i diritti dei giovani e delle donne. Una vitalità che è sopravvissuta contro tutto e nonostante tutto e che finalmente intravede una speranza.

Liberare questo potenziale, proteggerlo all'inizio e poi lasciarlo camminare da solo: questa è la posta in gioco. Non per «esportare la democrazia», ma per consentirne una fioritura autonoma. Se si riuscisse, l'effetto domino sarebbe enorme: l'Iran potrebbe smettere di alimentare i suoi «proxies» a Gaza, in Libano, in Irak e nello Yemen. Ma soprattutto, una soluzione negoziale della questione palestinese tornerebbe all'orizzonte. Perché, è inutile girarci intorno, Hamas vive di soldi, armi e legittimazione ideologica che arrivano da Teheran. E allora, chi vuole davvero cambiare gli equilibri, dovrà evitare gli errori del passato. Il combinato disposto tra raid dall'alto e piazze in fermento non è sufficiente. Le crepe nell'élite iraniana esistono, ma possono allargarsi solo in presenza di una visione politica orientata alla stabilizzazione democratica dell'antica Persia. Un progetto per il dopo. E qui il quadro si fa preoccupante. L'Onu ha la legittimità, ma non la forza. L'Europa ha i buoni uffici, ma non il peso. Gli Usa hanno i muscoli, ma non più la fiducia delle grandi masse arabe. Le potenze regionali si muovono in ordine sparso, seguendo logiche settarie o ambizioni egemoniche. Nessuno sembra in grado, oggi, di orientare una transizione ordinata.

In questo contesto, evocare la vittoria totale da una parte e dall'altra può essere molto pericoloso. Perché è un concetto che la teocrazia iraniana ha imbracciato per anni, minacciando l'apocalisse nucleare. E, pur evitando impropri parallelismi, va rilevato come anche una parte della destra israeliana insegua progetti di improvvisa e messianica redenzione.

Nessuno dimentica il pogrom del 7 Ottobre. La caccia agli ebrei. Nessuno nega il diritto di Israele a difendersi.

Ma proprio per questo oggi stare dalla parte di Israele significa anche aiutarla a vincere nel modo giusto. Con un dopo credibile. Perché la forza dell'Occidente non si misura in quanti regimi riesce ad abbattere. Bensì nella qualità del modello istituzionale, sociale e culturale che poi si afferma.

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