Una rivoluzione copernicana quella che si starebbe realizzando negli ultimi mesi, con gli Stati Uniti sempre più freddi nei confronti di Israele. Un atteggiamento che è certamente figlio del 7 ottobre scorso, che ha stravolto la geopolitica dell'intero Medio Oriente. Ma fa ancora più scalpore la notizia delle ultime ore, secondo cui l'amministrazione di Joe Biden ha bloccato l'invio di armi che consentirebbero l'invasione di Rafah da parte dell'Idf. Nonostante l'amministrazione Usa si sia subito precipitata a ricordare quanto sia ferreo il rapporto con Israele, la scelta senza dubbio, condizionerà il futuro delle relazioni fra i due Paesi. Almeno fino alla durata dei mandati dei rispettivi esecutivi.
Truman e la nascita di Israele
Tuttavia, le relazioni fra Washington e Tel Aviv non sono sempre state granitiche come le immaginiamo. Era il 1945 quando di fronte alla tragedia dell'Olocausto il governo americano di Harry Truman scelse di infittire i suoi rapporti con la Jewish Agency, per via del suo ruolo all'interno del movimento sionista. Un'operazione molto complessa in cui Pennsylvania Avenue affrontò l'intransigenza del Dipartimento di Stato. Del resto, con l'improvvisa scomparsa di Franklin D. Roosevelt, la politica americana in Medio Oriente aveva subito una brusca accelerazione.
La vicenda della Palestina intervenne a complicare le analisi sull’area, che si conquistò una posizione di rilievo nelle priorità del presidente e di alcuni dei suoi più stretti collaboratori come Clark Clifford. Il Dipartimento di Stato si trovò completamente spiazzato di fronte all'assunzione diretta di questa nuova politica da parte della Casa Bianca. Durante l'amministrazione Roosevelt, infatti, i responsabili della politica estera americana aveva un acquisito a proposito del Medio Oriente una delega amaglie molto larghe. Mentre questi movimenti interni a Washington si verificavano, all'interno di una finestra lasciata aperta sulla storia nacque lo stato di Israele.
Lo scontro nella politica americana a proposito di Israele
Da quel momento si contrapposero due posizioni, quella del Dipartimento di Stato che poneva in primo piano l'amicizia con i Paesi arabi, il pericolo comunista e le questioni inerenti gli approvvigionamenti energetici dall’area; la Casa Bianca invece non riteneva sicura l'amicizia con gli arabi e preferiva una temporanea contrapposizione alla totale assenza di alleati nell'area. Una nota vicenda che aveva visto anche il coinvolgimento di un pezzo da novanta come George Kennan (sì, quello del Long Telegram) e il Policy Planning Staff che aveva rafforzato le tradizionali posizioni del Dipartimento di Stato, contrario la nascita di uno stato ebraico in Palestina.
La prima fase delle relazioni fra Israele e Stati Uniti fu senza dubbio molto complessa almeno fino al 1952. Sancita l’indipendenza di Israele, infatti, non restava ai britannici e agli americani altro che manovre di assestamento per limitare danni ulteriori. Va inoltre ricordato, soprattutto ai commentatori odierni dimentichi della prima fase di questa storia, che le relazioni fra Israele e Stati Uniti non furono immediatamente sodali: anzi, bisogna ricordare che Tel Aviv accettò di buon grado grandi quantitativi di armi da parte dell'Unione Sovietica attraverso la Cecoslovacchia, il che consentì alla neonata nazione di respingere l'offensiva araba. Quel credito diplomatico raggiunto attraverso l'esperienza bellica permise a Israele di presentarsi con diverse credenziali agli occhi di Londra e di Washington.
Dalla nascita di Israele alla Crisi di Suez
Alla metà degli anni Cinquanta, un aspetto diventava sempre più evidente, ovvero lo spostarsi delle aree di frizione lungo il perimetro del sistema atlantico. Nel Medio Oriente in particolar modo lungo la Northern Tier e nel Mediterraneo in coincidenza con il progressivo detrimento dei rapporti fra i Paesi di tradizione coloniale e quelli di recente indipendenza. Fino al 1955 gli sforzi americani e britannici per costruire un contenimento sovietico non incontrarono altri ostacoli se non quelli derivanti dalle crisi coloniali francese e britannica. Gli Stati Uniti avevano elaborato una certa strategia di cauta attenzione all'interno di un'area così ristretta. Washington mirava a mantenere una certa imparzialità tra il neonato Stato di Israele e il mondo arabo per evitare di lasciarsi trascinare dalle conseguenze disastrose di una scelta di campo che avrebbe creato tumulti geopolitici a vario livello. L'esistenza di Israele doveva in parte all'appoggio statunitense la propria sopravvivenza, essendo sostenuta finanziariamente dal mondo ebraico americano. Tutto questo lasciava Washington nella perenne possibilità che questo eccesso di imparzialità portasse gli israeliani a iniziative disperate.
La logica strategica spingeva gli Stati Uniti a rafforzare legami con altri Paesi del mondo arabo e in particolare con l’Arabia saudita, trascurando in parte il ruolo che l’Egitto aveva fin da allora nello scenario mediorientale. In questa ottica che si spiega la proposta del Dipartimento di Stato di recuperare la proposta di finanziare assieme a Londra e alla Banca Mondiale il progetto della diga di Assuan, che avrebbe consentito una migliore regolazione delle acque del Nilo. Il Segretario di Stato John Foster Dulles pensò che impegnare l’Egitto in un'impresa di tipo titanico avrebbe potuto rabbonire Nasser rispetto all'odio verso Israele. Come oggi sappiamo, gli egiziani tentennarono, barcamenandosi fra le proposte americane e quelle sovietiche. Fallita la possibilità di ottenere una proposta altrettanto allettante da Mosca, Nasser venne spinto ad accelerare i negoziati con gli Stati Uniti quando però ormai era troppo tardi. Il resto che storia: iniziava una cruenta crisi che sarebbe culminata alla fine ottobre 1956 fra Israele, Gran Bretagna, Francia ed Egitto.
Uno scenario complesso poiché passava anche per la coscienza britannica all'aggressività francese, poiché gli inglesi oscillarono fino all'ultimo istante fra il timore di mettere a rischio la relazione con gli Stati Uniti e le loro ultime posizioni coloniali in loco.
La svolta di Kennedy verso Israele
Il consolidamento delle relazioni fra i due Paesi si verificò durante l'amministrazione Kennedy. Quando Jfk si insediò alla Casa Bianca nel 1961 le relazioni fra Washington e il Medio Oriente erano molto complesse e abbastanza opache. La Camelot kennediana aveva numerosi dubbi sulla direzione da conferire alla nuova politica mediorientale. L'interesse di Kennedy per la Palestina aveva radici molto lontane che risalivano al 1939, anno in cui aveva compiuto un viaggio nell'area, in occasione del quale aveva espresso il suo apprezzamento per la causa ebraica. Qualche anno più tardi, il futuro presidente ebbe a sottolineare come una “sicura Palestina ebraica” sarebbe stata essenziale per la sicurezza americana. Una volta alla Casa Bianca, scelse di suggerire al Dipartimento di Stato di sospendere l'embargo delle armi a Israele, sostenendo che se la controparte araba avesse continuato a ricevere armi dai sovietici ne sarebbe risultato un grave sbilanciamento ai danni di Israele. Era una rivoluzione copernicana.
Dopo la crisi di Suez, Kennedy arriverà a sostenere con fermezza la richiesta israeliana di sicurezza lungo i propri confini, rigettando la possibilità che l’Onu potesse imporre sanzioni contro lo stato ebraico.
Due sarebbero stati i capisaldi di questa nuova direzione della politica estera americana: Israele era una democrazia occidentale che si sarebbe andata integrando sempre di più all'interno del sistema internazionale; dall’altro lato, Russia e Cina rischiavano di rappresentare un modello potente per i Paesi del Terzo Mondo che si avviavano alla decolonizzazione. Era a questo fascino che agli Stati Uniti avrebbero dovuto fornire un’alternativa e Israele sarebbe stato lo strumento principale per proporre il modello occidentale nell'area. Il resto è storia.
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