Vivere nel mondo dove regna l'ayatollah

Se la guerra in corso tra lo Stato di Israele e il regime degli Ayatollah dovesse concludersi con un vincitore e uno sconfitto con una prevalenza e con l'imposizione dei valori del vincitore, in quale dei due mondi vorremmo vivere?

Vivere nel mondo dove regna l'ayatollah
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Non basta la pace. È nei momenti più difficili che siamo chiamati a compiere le scelte più difficili. Sono le circostanze in cui l'assoluto si separa dal relativo, in cui l'ideale la pace, la giustizia, l'eguaglianza deve lasciare il posto al bene possibile, quello che le condizioni date consentono di perseguire.

Oggi, mentre le bombe cadono su Israele e sull'Iran, ogni forza politica e sociale è chiamata a definire se stessa, ad indicare con chiarezza il perimetro dei propri valori. È il momento di schierarsi, abbandonando lo scudo ipocrita della pace universale. È questa la differenza tra il magistero morale e l'azione politica.

Auspicare il ritorno al dialogo e la fine dei raid è un atto dovuto per ogni persona di buon senso. Ma altrettanto doveroso è, per chi ha responsabilità di governo o di opposizione, dichiarare con trasparenza in quale insieme di valori si riconosce. Anche anzi, soprattutto quando quei valori vengono offuscati da scelte che non si condividono.

Alla fine di questo ragionamento, la domanda che si impone è una e una soltanto.

Proviamo a formularla così: se la guerra in corso tra lo Stato di Israele e il regime degli Ayatollah dovesse concludersi con un vincitore e uno sconfitto con una prevalenza tanto netta quanto improbabile e con l'imposizione dei valori del vincitore, in quale dei due mondi vorremmo vivere?

In quello del velo obbligatorio, della sharia, della guida suprema Khamenei, scelto dal clero sciita?

O in quello della civiltà giudaico-cristiana di Israele, con la sua democrazia, i suoi diritti civili e sociali?

Rispondere a questa domanda è tanto più urgente oggi, quando anche i più convinti sostenitori di Israele faticano ad approvare ogni scelta del governo Netanyahu. Ma gli errori ammesso che siano tali compiuti da chi combatte per la propria sopravvivenza non possono offuscare il giudizio di fondo su una democrazia. Così come le ragioni di una teocrazia repressiva non possono essere rivalutate solo perché il suo avversario, talvolta, ha agito con durezza.

La certezza che deve guidare una scelta difficile è che dietro ai missili, che colpiscono civili innocenti da entrambe le parti, ci sono comunque due mondi. E tutto ciò che siamo, tutto ciò che abbiamo conquistato dall'Illuminismo in poi grazie al sacrificio di molti è rappresentato, con chiarezza, dal mondo di Israele.

I capisaldi di questo ragionamento sono, in fondo, semplici. Dal 1948, Israele non ha mai iniziato una guerra. Ne ha subite molte, tutte animate dall'obiettivo della sua cancellazione. La corsa all'atomica dell'Iran si inserisce pienamente in questo scenario.

Se la reazione di Tel Aviv agli attacchi è stata talvolta più brutale di quanto le nostre coscienze potessero accettare, ciò non cambia la relazione tra causa ed effetto.

In Israele, anche i cittadini arabo-palestinesi con cittadinanza votano il proprio governo.

In Iran, la guida suprema è scelta da un'assemblea religiosa. Potremmo continuare a elencare le differenze: la condizione delle donne, la vita degli omosessuali, la libertà culturale, affettiva, sessuale. E persino la banale ma non per tutti libertà di vestirsi come si vuole.

Alla luce di tutto questo, la politica ha oggi il doloroso dovere di distinguere tra violenza e violenza.

Chiedersi dove saremmo oggi se i nostri nonni avessero giudicato allo stesso modo le bombe su Dresda e quelle su Londra, ottant'anni fa, non è retorica: è responsabilità.

Guardare alla guerra senza orrore è disumano. Ma giudicarla senza il filtro dei nostri valori rischia di esserlo ancora di più.

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