da Milano
Il consiglio d’amministrazione dell’Hopa continua la ricerca della sua identità: nella riunione di ieri, oltre a uno sguardo sulla gestione, sono stati fatti passi avanti sull’esame del piano industriale affidato a McKinsey e sulla ricerca di un partner finanziario: si dovrà decidere entro fine anno. Una questione che riguarda tutti i soci, ma tre in particolare: Fingruppo, Mps e Abn Amro.
La prima è la holding di Emilio Gnutti ed Ettore Lonati che un tempo faceva il bello e cattivo tempo. Ora, dopo la bufera dello scorso anno, Gnutti è fuori gioco. Lonati è diventato il leader e ad di Hopa, ma gli altri soci nel patto di sindacato, cioè Mps, Unipol e Bpi, che insieme a Fingruppo arrivano al 55% di Hopa, contano molto di più di un tempo. Anche se, in verità, è Mps la banca che, oltre a esprimere il presidente (Marco Morelli), potrebbe avere le mire più consistenti. Meno probabile, invece, che Unipol (alle prese con il dopo-Consorte) e Bpi (appena rilevata dalla Bpvn) possano avere grande interesse. Poi c’è Abn, subentrata ad Antonveneta-Interbanca. Il gruppo olandese sta fuori dal patto, però ha circa il 10% ed è molto interessata al mercato italiano. Per questo il partner finanziario, se sarà «interno» uscirà da uno di questi due nomi. Viceversa, a seconda di quello che dirà McKinsey, sarà Fingruppo a scegliersi un partner. In ogni caso Hopa non sarà più la stessa.
I fasti dell’Opa Telecom sono morti e sepolti: la razza padana, che da quella operazione doveva affacciarsi sullo scenario economico nazionale portando facce e risorse nuove, è rientrata nei ranghi. Tutto è finito lo scorso anno, a causa della rete di alleanze e amicizie che ha coinvolto Gnutti nelle faccende giudiziarie sulle scalate a Bnl e Antonveneta. Fino ad allora Hopa continuava a rappresentare un’opportunità per il sistema. Dalla crisi Fiat, a quella Alitalia, fino alle ipotesi per le privatizzazioni: ogni dossier finiva a Brescia. Ma il salto di qualità, a Gnutti, non è riuscito. È fallito l’inserimento di Hopa nell’ambito dell’establishment economico nazionale. Anzi, è stato lo stesso establishment ad allontanare definitivamente il «corpo estraneo». Come si potrebbe dire parafrasando l’Avvocato: se Telecom è stato humanum, le banche si sono rivelate diabolicum. Anche se poi la «liquidazione» finale è arrivata solo nel luglio scorso, quando Marco Tronchetti Provera, patron di Pirelli e di Olimpia, ha espulso Hopa da quest’ultima, la holding che detiene la maggioranza relativa di Telecom. Hopa ha ceduto il suo 16% di Olimpia incassando 536 milioni: una cifra che ha chiuso per sempre l’avventura iniziata nel ’99. Con che profitto per Hopa? Poco o niente: per quanto possa essere strano è così.
Come si ricorderà, la cessione del 23% di Olivetti (che controllava Telecom) a Pirelli (con Benetton) del 28 luglio del 2001 ha fruttato 7,2 miliardi. A vendere è stata Bell, finanziaria lussemburghese, con una plusvalenza di 2 miliardi: era il frutto della scalata Telecom per Colaninno & c. I quasi 200 azionisti che giravano intorno a Hopa e alla Gpp Finanziaria contavano per circa il 50% di Bell. Quindi il profitto di pertinenza dei «bresciani» era nell’ordine del miliardo.
Ma mentre l’altro miliardo, dopo alterne vicende, finì nelle casse degli altri soci Bell (tra cui le banche Mps e Antonveneta, Unipol, Falck e Gazzoni) e di Colaninno (che venne liquidato da Hopa e Fingruppo), per i bresciani le cose andarono diversamente.
Poco dopo l’11 settembre i banchieri di Pirelli chiesero a Hopa uno sconto: quella cifra non si poteva più pagare. Il rischio era il commissariamento della società. Una situazione che il governo Berlusconi fece chiaramente capire a entrambe le parti che si doveva a ogni costo evitare. Per questo, in ottobre, Gnutti, assistito da JpMorgan, e Tronchetti, con Braggiotti di Lazard, trovarono un’intesa: Hopa sottoscriveva un prestito obbligazionario pagando un miliardo per un valore sottostante di 250 milioni. Ed ecco che, di quel miliardo, ne volavano via 750 milioni. Che avrebbero potuto tornare a casa a condizione che i titoli Olivetti, pagati 4,175 euro quando valevano 2,25, cominciassero a risalire la china dalla quota un euro dove erano scivolati in quell’autunno.
Successivamente Hopa ha fatto la sua parte prima trasformando il prestito in azioni Olimpia (il 16%), poi partecipando ai due successivi aumenti di capitale della holding per 450 milioni. E ha continuato a investire in azioni Telecom per mediare il prezzo di carico. Fino al luglio scorso, quando la partita si è chiusa definitivamente. Peccato che, nel frattempo, il titolo Telecom non si è mai ripreso: il valore rettificato del titolo (post fusioni Olivetti e Tim) è passato dai 4,4 euro per azione del luglio 2001, fino ai 2,2 euro del prezzo di liquidazione di Hopa. Per questo, dopo la chiusura della partita del luglio scorso, i 536 milioni incassati da Hopa sono serviti per rientrare degli aumenti di capitale, e poco altro.
Anche perché nella controllata Holinvest è stato accumulato un tesoretto (il 3,7% di Telecom) sul quale graverebbe comunque una minusvalenza nell’ordine dei 250 milioni. Ma questa è un’altra storia sulla quale Hopa deve ancora decidere che fare. Forse chiederà di essere rappresentata nel cda. Sperando che le prossime mosse di Guido Rossi riportino a Brescia un po’ di soddisfazione.
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