
Amici miei, uno dei capolavori di Mario Monicelli, uscì nelle arene estive nel giorno di ferragosto del 1975. È il primo della serie cinematografica che continuerà nel 1982 con Amici miei. Atto II, sempre con la regia di Monicelli, e nel 1985 con Amici miei. Atto III, con la regia di Nanni Loy. Il progetto originario era di Pietro Germi. Morì prima di poter realizzare il film e la cosa finì tra le mani di Monicelli.
Nel 1975, cinque amici fiorentini sulla cinquantina si divertono a ordire scherzi infantili e sadici a danno di malcapitati. In origine, però, il film era ambientato a Bologna. Fu Monicelli a trasferire la storia a Firenze. Al regista sembrava che il cinico senso dell'umorismo della sceneggiatura fose perfetto per la città toscana. E così fu. A Firenze, è possibile fare il tour dei luoghi storici della pellicola. Il mitico Bar Necchi, dove furono girate molte scene, si trovava in via de' Renai 31. Oggi c'è una lapide a ricordare il set di Amici miei. Non furono solo i fiorentini a entusiasmarsi. La commedia andò bene al botteghino e incassò oltre 7 miliardi di lire (oggi 45 milioni di euro), superando, in quella stagione cinematografica, Lo squalo, Qualcuno volò sul nido del cuculo e I tre giorni del Condor. Il cast era stellare.
Gli artefici delle "zingarate" erano Gastone Moschin, Duilio Del Prete (poi Renzo Montagnani), Adolfo Celi, Ugo Tognazzi e Philippe Noiret. I cinque mascalzoni deridono chiunque capiti a tiro. Schiaffeggiano i passeggeri affacciati ai finestrini dei treni in partenza. Fingono di essere ingegneri arrivati per radere al suolo un paese che intralcerebbe una nuova autostrada. Inscenano un regolamento di conti con la mala coinvolgendo un poveraccio costretto a fuggire in Calabria. Scherzano con i santi, i preti, il matrimonio, la fedeltà, la malattia, gli stupidi, i pretenziosi e gli insipidi.
Oltre alle "zingarate", viaggi senza meta con il gusto di infierire in località a caso, entrano nella leggenda e nel lessico comune le "supercazzole" del conte Mascetti, interpretato da un magistrale Ugo Tognazzi. Le "supercazzole" sono frasi senza senso buttate lì per confondere e irridere gli interlocutori. Ecco la "supercazzola" rifilata dal conte a un vigile intenzionato a fare la multa ai nostri.
Mascetti: "Tarapìa tapiòco! Prematurata la supercazzola, o scherziamo?"
Vigile: "Prego?"
Mascetti: "No, mi permetta. No, io... scusi, noi siamo in quattro... come se fosse antani anche per lei soltanto in due, oppure in quattro anche scribài con cofandina? Come antifurto, per esempio?"
Il vigile va in confusione. La "supercazzola" è un'invenzione con più padri: Monicelli, Tognazzi, gli sceneggiatori. Ma ha anche un precedente illustre, il Decamerone di Giovanni Boccaccio (novella ottava della terza giornata).
Pochi film come Amici miei lasciano trasparire l'origine della comicità, del bisogno di farsi beffe della vita: è la paura di invecchiare e di morire. Quella paura che diventa concreta ed è sempre evocata, in ogni capitolo della serie. Basti pensare che una clinica è il luogo dove i cinque amici cementano il loro rapporto in seguito a un grave incidente. Uno dei goliardi poi nasconde un segreto doloroso, la morte del figlio di cinque anni. Il finale contempla la morte del personaggio di Philippe Noiret, capace comunque di uno scherzo micidiale, una "supercazzola" da record, al prete durante l'estrema unzione.
Ogni impresa assurda è una piccola ribellione all'assurdità del mistero che ci attende dopo l'ultimo respiro. Si vede, qui, la grandezza della commedia all'italiana, e ad Amici miei possiamo accostare altri titoli dello stesso Monicelli ma anche di Dino Risi (Il sorpasso) o Pietro Germi (Divorzio all'italiana) o anche Marco Ferreri (La grande abbuffata) e perfino Federico Fellini (La dolce vita). Film provenienti da epoche e poetiche diverse ma accomunati dal tentativo di spiegare, attraverso una risata grottesca o un sorriso raffinato, quel malessere che ci attende in fondo all'anima. La vita è dolce, sì, ma solo a tratti, negli istanti rubati all'evidenza della cosa terribile: il tramonto nostro e dei nostri cari. È Ugo Tognazzi il mattatore di Amici miei. È l'attore cremonese a incarnare, con quell'aria tra il sornione e il depresso, lo spirito ambivalente del film, tragico nella sua comicità o viceversa.
Oggi sarebbe impossibile girare un Amici miei. La commedia all'italiana è diventata, con qualche eccezione, però notevole come Checco Zalone, un'innocua orgia di cliché "corretti" dal pensiero conformista. L'idea di prendere in giro tutti, comprese le specie protette dal wokismo, non avrebbe forse il sostegno di una produzione importante. Ma Amici miei e la migliore commedia all'italiana facevano bene perché facevano male. I nostri registi erano spietati e sono ancora avanti anni luce nella satira del costume nazionale. Amici miei a parte, pensiamo a un film che sarebbe clamoroso anche se uscisse domani: I mostri (1963) di Dino Risi.
Una sventagliata di mitra contro i benpensanti, gli schiavi del consumismo, i finti colti dei salotti letterari, i furbastri, i registi megalomani, i politici corrotti, la giustizia ingiusta, i preti in cerca di popolarità. Un altro capolavoro, ma chi lo farebbe oggi?