Cultura e Spettacoli

I "capolavori" raschiati dal fondo del barile

Carver, Bukowski, Fante, Dick e perfino Nabokov: del narratore di culto non si butta via niente Ecco perché escono decine di libri "inediti" e "postumi" che farebbero rabbrividire gli autori stessi

I "capolavori" raschiati dal fondo del barile

Non esiste ancora un «Canone occidentale» per stabilire quali autori e soprattutto quali titoli possano essere considerati dei «Classici da cestino». Quello che è certo è che le librerie sono invase da inediti, carteggi, romanzi postumi di grandi scrittori del ’900. Non passa mese che non si mandi sul mercato «uno straordinario inedito», un «per la prima volta in Italia», un «mai tradotto». Il sospetto, vista la qualità, è che si tratti proprio unicamente di mercato. I casi sono i più disparati e disperati anche perché alla scoperta di inediti si affianca il fenomeno dei «classici compulsivi»: scrittori che, lanciati in Italia da piccole e medie case editrici, ora rivivono in decine di nuove edizioni nelle collane dei maggiori editori. L’ultimo caso riguarda Nabokov: a stento la raccolta di «schede» pubblicate col titolo L’originale di Laura (Adelphi) si possono considerare un romanzo. Non è un caso che l’autore, noto perfezionista, avesse chiesto agli eredi di bruciarle. E invece eccole in libreria, paragonate addirittura a Lolita.

Esistono scrittori spolpati fino all’osso. Prendiamo Bukowski: il vecchio Buk, da qualche anno, vede i suoi lavori da cestino, o da cassetto nascosto, saccheggiati. Si pubblica di tutto. E in special modo le sue poesie. Basti dare una lettura a Cena a sbafo, appena pubblicato da Guanda, per chiedersi se il vecchio Buk ne avrebbe mai permesso la pubblicazione. Perché, come si legge tra i «credits», è un volume che «contiene componimenti tutti postumi». E, immergendosi tra i versi, viene naturale immaginare come queste «liriche» appartenessero più ai postumi di qualche serata andata male che ai posteri. Componimenti sospesi tra un e.e. cummings che ha sbattuto la testa contro la porta di un bar e un nuovo genere che potremmo ribattezzare «surrealismo da marciapiede», con sperimentalismi a dir poco già letti. Leggere, ad esempio, «Nella camera da letto di una signora» rattrista: «Cerco di scrivere una poesia/ nella camera da letto di una signora/ (ho l’alito che sa di cipolla)/ mentre lei taglia un vestito». Per non parlare di originali componimenti come: «La vera solitudine/non/è/ necessariamente/limitata a/ quando/ si è/ soli». Anche la precedente antologia di «postumi» Una notte niente male, edito l'anno scorso sempre da Guanda lascia piuttosto perplessi, ma a correrci in aiuto è l’ultima poesia «Evidenza» in cui Bukowski scrive che: «puttane e grandi poeti dovrebbero evitarsi». Ma si sa, il mercato è quello che è: difficile evitarsi.

Un altro saccheggiato è John Fante, il grande scrittore italo americano: scoperto da Vittorini nell’antologia Americana, pubblicato per primo da Mondadori, poi passato a Leonardo, poi a Marcos y Marcos e Fazi che hanno contribuito moltissimo alla sua scoperta anche presso il grande pubblico, gli è stato dedicato un Meridiano e ora Einaudi ne ripubblica l’intera opera in edizione tascabile. Appena ripubblicato è Full of life, romanzo postumo e senza dubbio non tra i più riusciti, anzi. Eppure nel centenario della morte dello scrittore è descritto come il suo capolavoro, come se Chiedi alla polvere o Aspetta primavera, Bandini non fossero mai esistiti, ed è «arricchito», si legge in quarta di copertina, da «una sorprendente lettura introduttiva di Paolo Giordano».

Anche a un altro grande americano, Raymond Carver, è toccata una sorte simile a Fante: prima la scoperta e il lancio di minimum fax, poi la tumulazione celebrazione nei Meridiani, e recentemente l’edizione Einaudi con il titolo I principianti della versione «originale» dei suoi racconti senza l’intervento del suo editor Gordon Lish. Apprezzabile operazione postuma per superappassionati e filologi ma quanta magia, nemmeno troppo minimalista, nel leggere di tagli e ritagli, aggiustamenti e interventi, dell’autore per cui «scrivere non è ridurre all’osso, ma al midollo»? E dopo I principianti, inizia il diluvio: sotto quindi con Vuoi star zitta per favore appena (ri)pubblicato da Einaudi.

Nato postumo è, invece, Philip Dick: in vita ha pubblicato centinaia di racconti e romanzi, ma per decenni anche in Italia è rimasto ignorato o confinato nel limbo di «autore di Blade Runner». Grandissimo merito a Fanucci per averlo trasformato da autore di culto a scrittore riconosciuto anche in Italia tra i massimi geni del ’900: grazie alle idee (saccheggiate soprattutto dal cinema) non certo ad una scrittura molto spesso a dir poco scialba. Intuizioni che Fanucci ha pubblicato in ogni sorta di collana possibile (cartonato, tascabile, supertascabile, ipertascabile, fantatascabile). Non è mancato l’inedito: Il Paradiso maoista, primo romanzo scritto tra il 1949 e il 1950 da un Dick 22enne e che è proprio «il» classico da cestino perché dimostra tutti, ma proprio tutti, i limiti stilistici di Philip.
Non è stato risparmiato nemmeno Robert Walser, l’autore di capolavori come I Fratelli Tanner o Jacob von Gunten: pubblicati diari, lettere, poesie. Tutto il possibile ma che, date le vette narrative di Walser, raramente ha deluso. Eppure il cestino lo scorso anno ha colpito anche lui con Il brigante, edito da Adelphi: un racconto, come si legge in seconda di copertina, che è «un azzardo ultimo alla scrittura, che prelude al silenzio». Avremmo preferito il silenzio, come del resto Walser stesso che abbandonò incompiuto il manoscritto, ma tanto vale.

Sempre meglio un Walser al peggio della forma che il nuovo fenomeno dei «classici compulsivi». Autori lanciati come dei geni, non sempre si sa come né perché: sembrano usciti da un Big Bang di strane combinazioni. Si veda, ad esempio, Joe Lansdale: venerato dalla critica, divorato dal pubblico, è il classico serial killer della scrittura. Non passa mese che non esca un suo libro: una produttività sterminata.

Il che non è una colpa, più che altro un mistero. Quello che ci si domanda è: non si corre il rischio che si inizi a misurare il tempo in «mesi e anni Lansdale»?

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