La scienza della scrittura e la scrittura della scienza sono (a volte) da Nobel

Da Gadda a Primo Levi a Roald Hoffmann, molti chimici, fisici e medici si sono dedicati alla letteratura

La scienza della scrittura e la scrittura della scienza sono (a volte) da Nobel

«Lei come concilia il suo lavoro con la scrittura?». È la domanda-tipo per i rari scrittori che svolgono una professione scientifica. A me, che faccio il chimico in università e scrivo romanzi, lo chiedono a ogni presentazione. Sono pronto a scommettere che succede lo stesso ad Andrea Vitali (medico) o a Giulia Bignami (chimica), e se vogliamo allargare la categoria anche a chi ora vive di sola scrittura, ma ha alle spalle una solida formazione scientifica, possiamo aggiungere Paolo Giordano (dottorato in fisica), Chiara Valerio (dottorato in matematica), Marco Malvaldi (dottorato in chimica) e, andando indietro nel tempo, sono inevitabili i nomi di Primo Levi (laurea in chimica) e Carlo Emilio Gadda (laurea in ingegneria). È un elenco scarno. Potrebbe essere un poco rimpolpato con qualche scrittore straniero, come Carl Djerassi e Charles P. Snow (entrambi chimici), ma è un elenco che rimarrebbe comunque breve: ho incluso solo scrittori di narrativa, e per lo più di narrativa pura, la più nobile, quella che ambisce a essere letteratura. Ho escluso invece chi scrive saggistica e divulgazione scientifica, o chi scrive fiction del genere a questa legato a doppio filo, la fantascienza. Ebbene, rimanendo dentro il tentativo di fare letteratura, come si conciliano anni di studio e lavoro scientifico con la pratica della scrittura?

In realtà non c'è niente da conciliare. Se ci sono pochi scrittori-scienziati è perché la pratica della ricerca è un'attività vocazionale, talmente coinvolgente da consumare buona parte del tempo disponibile. Per chi ha una formazione scientifica scrivere non presenta difficoltà maggiori di chi ha una formazione umanistica. Talento a parte (ed è un dono distribuito a casaccio), occorre in entrambi i casi aver letto molto e aver sempre preso la scrittura abbastanza sul serio da considerarla un esercizio a cui applicarsi quotidianamente. La difficoltà sta solo lì, nel rimanere lucidi anche nei ritagli che concede la scienza la sera, i weekend, le vacanze , spostando i neuroni surriscaldati dal laboratorio al mondo delle proprie storie. E poi occorre avere qualcosa da dire e sentire la necessità di scriverlo, come per qualsiasi scrittore che si rispetti. Come benefit, la forma mentis scientifica aiuta a dare alla scrittura pulizia e sobrietà, a individuare l'essenziale e a scriverlo chiaro, senza timori o esitazioni. Se questo è un uomo di Primo Levi ne è un esempio nitido: una mente scientifica ha usato misura e ragione nell'assecondare la necessità di raccontare l'inferno, scrivendo un capolavoro.

Agli scienziati che invece scrivono di scienza divulgandola o, in senso più lato, raccontandola nessuno si sogna di chiedere: «Come concilia?». Scriverne sembrerebbe in naturale continuità con studio e ricerca, ma non è proprio così. Benché qualsiasi scienziato che si rispetti abbia familiarità con la scrittura tutti pubblichiamo, sulle riviste di settore, articoli con i risultati delle nostre ricerche si tratta di una scrittura ingessata e tediosa. Regole non scritte, cioè la tradizione della letteratura scientifica pubblicata in rivista, ci obbligano a essere impersonali, freddi, pedanti. Se n'è spesso lamentato Roald Hoffmann, premio Nobel per la chimica ma anche saggista e poeta, che sostiene che negli articoli scientifici non si possano usare pathos, climax, esultanza per la scoperta, frustrazione per i risultati negativi. Cioè narrazione. Così, senza strumenti narrativi, scrivere di scienza fuori dalle riviste peer-reviewed implica due rischi: da un lato scadere in una scrittura scolastica, da bigino, dall'altro esagerare con la retorica, confezionando testi tutti a squillo di tromb(on)e. Se si racconta la scienza occorre avvincere e convincere, cioè mantenere il lettore attaccato alla pagina e allo stesso tempo convincerlo che stia imparando qualcosa. È un'impresa che richiede un talento diverso da quello della scrittura letteraria. Ci sono scienziati che in questo eccellono e non a caso i loro libri diventano bestseller: Carlo Rovelli e le sue Sette brevi lezioni di fisica; Oliver Sacks, neurologo, che ha scritto, tra le altre cose, Zio Tungsteno, sontuoso racconto della nascita della chimica moderna; Werner Heisenberg, premio Nobel nel 1932, autore di numerosi libri tra scienza e filosofia ma soprattutto di Fisica e oltre, in cui ha tracciato i ritratti dei protagonisti dell'epopea della fisica quantistica; oppure Graham Farmelo, fisico, autore di L'uomo più strano del mondo, appassionante biografia di Paul Dirac, premio Nobel per la fisica l'anno dopo Heisenberg.

Le (auto)biografie degli scienziati fanno genere a sé nella scrittura sulla scienza. Kary Mullis (biochimico, Nobel nel 1993), ha scritto la propria, Ballando nudi nel campo della mente, ed è un libro straordinario, che chiunque, anche senza conoscenze di biologia, può leggere con gioia. Altri eccellenti testi sono L'uomo che sapeva tutto, biografia di Enrico Fermi, e Oppenheimer, il primo scritto da David N. Schwartz, il secondo dalla coppia Kai Bird e Martin Sherwin. Nessuno di loro ha una formazione scientifica, ma nella tradizione del giornalismo biografico americano hanno scritto libri appassionanti (nonostante la mole), storicamente ben circostanziati, e corretti dal punto di vista scientifico (dove hanno contato le consulenze degli esperti).

Per chiudere il cerchio, rimane il caso della scienza che diventa parte delle storie di scrittori puri, privi di un retroterra scientifico significativo. È il caso più pericoloso. E non per il rischio di scrivere cose sbagliate dal punto di vista tecnico chi se ne importa, in un romanzo ci sta tutto, purché ci sia coerenza interna , ma per il rischio di imboccare la strada più stucchevole, quella della scienza raccontata come arcano, degli scienziati descritti come mistici, delle teorie scientifiche trasportate di peso nella filosofia morale (vittima preferita: il principio di indeterminazione di Heisenberg).

Per sfuggire a questa trappola bisogna avere l'equilibro e il talento del grande scrittore. Come Michel Houellebecq in Le particelle elementari, Ian McEwan in Solar, Massimiliano Parente in L'inumano, Don DeLillo in Zero K.

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