«I l cervello è più vasto del cielo», scriveva Emily Dickinson. «I pois sono una via per l'infinito», risponderebbe, in un dialogo ideale, Yayoi Kusama. È suo il cervello fantastico ad aver regalato a Milano la sua straordinaria personale intitolata «I want to live forever», al Pac fino al 14 febbraio, con invenzioni artistiche più vaste di ogni nostra aspettativa. E sono stati diecimila i visitatori in un mese. Pare che piaccia soprattutto ai più piccoli: si innamorano dei suoi fiori giganteschi simili a trifidi e delle sue zucche primordiali, le stesse che presentò a Venezia alla Biennale del 1993, vestendosi da strega in una sala degli specchi che trasformò in orto supremo. Rimangono incantati dai suoi colori strabilianti, da far invidia al miglior luna park disneyano, dalle sue forme semplici e geniali, dei suoi giochi visuali - le 888 sfere metalliche del Narcissus Garden (come resistere alla tentazione di farle rotolare tutte ?), le moltiplicazioni di specchi e luci, le curve sinuose - e naturalmente dei suoi superbi, disinibiti pois, così grandi e perfetti che vien voglia di toccarli, mangiarli, ridipingerli, subito, prima che qualche creatura venuta dalla fantasia li faccia scomparire.
E i bambini si divertono, un po perché trattenuti dalle accattivanti attività didattiche che portano titoli come Dots, Immerson, Obsession, in cui travestimento, mimesi, buchi, sporgenze, finito e infinito si accavallano nel racconto di un universo delle meraviglie che qui è l'arte.
È struggente che tanta creatività derivi dalla follia. Perché Kusama, oggi ottantenne di abbagliante vivacità compositiva (in mostra anche alcune sue nuove opere in progress, come appunto la serie Flowers That Bloom at Midnight) che non ha smesso di vivere come in una interminabile performance, è perseguitata da allucinazioni visive e uditive da quando aveva dieci anni. A quella stessa età risalgono i suoi primi disegni.
Maggiorenne, venne mandata contemporaneamente a scuola di etichetta e d'arte. E seppe subito scegliere a chi scrivere quando - erano gli anni Cinquanta, un talento così avrebbe potuto sfuggire al richiamo della Pop Art ? E quandanche fosse stato, mai a quei tempi una donna sarebbe diventata unartista famosa in Giappone - decise di trasferirsi a New York. Georgia OKeeffe le rispose e quando Yayoi arrivò, nel 1957, la introdusse al mondo di Andy Warhol, Barnett Newman, Claes Oldenburg, che conobbe e frequentò. Finì presto in mostra con nomi quali Yves Klein, Piero Manzoni e Lucio Fontana e divenne un altro nome da etichettare: surrealista, minimalista, monocroma, pop, psichedelica. Visse a New York quanto le bastò per capire che l'infinito, i pois, le reti l'avrebbero perseguitata ovunque. Tornò in Giappone da sconosciuta e nel 1977 si fece ricoverare volontariamente nell'ospedale psichiatrico di Tokyo, noto in tutto il mondo per l'art therapy, dove vive tuttora.
Come dimostra questo evento milanese e anche l'ottimo catalogo che l'accompagna (Federico Motta Editore), la storia artistica di Yayoi Kusama non è assimilabile ad alcuna corrente.
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