Palermo - Il senatore Marcello Dell’Utri avrebbe svolto una attività di "mediazione" e si sarebbe posto quindi come "specifico canale di collegamento" tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi. Lo scrivono i giudici della Corte d’Appello di Palermo nelle motivazioni, depositate oggi, della sentenza con la quale Dell'Utri è stato condannato il 29 giugno scorso a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Per i giudici, Dell’Utri "ha apportato un consapevole e valido contributo al consolidamento e al rafforzamento del sodalizio mafioso". In particolare, l’imputato avrebbe inoltre consentito ai boss di "agganciare" per molti anni Berlusconi, "una delle più promettenti realtà imprenditoriali di quel periodo che di lì a qualche anno sarebbe diventata un vero e proprio impero finanziario ed economico". Per questi motivi la Corte ritiene "certamente configurabile a carico di Dell’Utri il contestato reato associativo". Il mafioso Vittorio Mangano fu assunto, su intervento di Marcello Dell’Utri, come "stalliere" nella villa di Arcore non tanto per accudire i cavalli ma per garantire l’incolumità di Silvio Berlusconi.
Nessuna prova di patto elettorale Non c’è una prova certa "nè concretamente apprezzabile" che tra il senatore Dell’Utri e Cosa nostra sia stato stipulato un "patto" politico-mafioso. La sentenza sottolinea la "palese genericità delle dichiarazioni dei collaboranti" su questo punto. E ricordano che fino al 1993 i vertici mafiosi, e in particolare Leoluca Bagarella, erano impegnati a promuovere una propria formazione politica - "Sicilia libera" - di intonazione autonomista. Poi il progetto venne accantonato perchè intanto era nata Forza Italia. L’appoggio elettorale dato al partito di Berlusconi non darebbe certezze sull’esistenza di un accordo. Questa ipotesi, sostenuta dall’accusa, "difetta pertanto di quei connotati di serietà e concretezza richiesti dalla suprema corte ai fini della configurabilità del concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso nel caso paradigmatico del patto di scambio tra l’appoggio elettorale da parte della associazione e l’appoggio promesso a questa da parte del candidato". "Nè sussistono prove - scrivono ancora i giudici - che la pretesa promessa e l’impegno asseritamente assunto dal politico, effettuata una verifica probatoria ex post della loro efficacia causale, abbiano fornito dall’esterno un apporto alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione mafiosa di per sè incidendo immediatamente ed effettivamente sulle capacità operative dell’organizzazione criminale, per esserne derivati concreti vantaggi o utilità per la stessa o per le sue articolazioni settoriali coinvolte dall’impegno assunto".
L'avvocato Di Peri "La ricostruzione operata dai giudici di secondo grado, che hanno di fatto confermato la sentenza di primo grado, non può che ricalcare i ragionamenti che abbiamo fortemente contrastato durante il processo e che
speriamo vengano invece apprezzati in sede di giudizio della Corte di Cassazione che andremo sicuramente a proporre". Così, l’avvocato Giuseppe Di Peri, uno dei legali del senatore, commenta le motivazioni della sentenza.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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