In principio era The Federalist; e per un lungo periodo non ci fu altro. Fino a cinquantanni fa tutto il dibattito istituzionale sulle origini degli Stati Uniti veniva ricondotto ai saggi scritti da Alexander Hamilton, John Jay e James Madison in vista della convenzione di Filadelfia e al fine di creare consenso intorno allidea di unificare gli americani. Saranno poi Cecilia M. Kenyon e, in seguito, Herbert J. Storing a evidenziare limportanza che ebbero quanti - i cosiddetti «anti-federalisti» - si opposero a quel progetto e fecero il possibile per contrastarlo.
Una parte significativa degli scritti di tali ardenti difensori delle libertà post-rivoluzionarie sono ora disponibili al lettore italiano, in un volume curato da Luigi Marco Bassani, Gli antifederalisti: i nemici della centralizzazione in America, 1787-1788 (edito da IBL Libri e in vendita a 25 euro), che per la prima volta porta al di fuori degli Stati Uniti questo dibattito di straordinario interesse.
Lantologia ha pure il merito di liberare Hamilton e i suoi da una sorta di isolamento che in qualche modo rendeva difficile comprendere il senso dei loro stessi pamphlet, redatti per contrastare quei settori dellopinione pubblica rivoluzionaria che non volevano un potere centrale e sovrano. Il progetto hamiltoniano, daltra parte, mirava soprattutto a «normalizzare» lesperimento politico nato con il distacco dalla Madrepatria inglese.
Caratterizzati da una forte spinta ideale, gli anti-federalisti - da Patrick Henry a George Mason, a Richard Henry Lee - interpretavano invece una radicale difesa dei diritti individuali e unavversione ancora maggiore per la centralizzazione. Erano insomma autenticamente jeffersoniani e se non trovarono nellautore della Dichiarazione dIndipendenza il loro leader naturale fu solo perché, in quegli anni, questi era ambasciatore a Parigi.
Come Marco Bassani spiega nellintroduzione, nel 1776 la decisione delle colonie di rendersi indipendenti da Londra aveva rappresentato una dissoluzione del vecchio sistema che aveva affrancato dal dominio inglese senza costruirne uno nuovo. La nascita dellAmerica indipendente fu dunque un atto politico di rottura alla base del quale cera lidea che una società naturale, sottratta al controllo di un potere sovrano, non è una giungla hobbesiana, ma sa sviluppare proprie istituzioni. Nonostante la vulgata, gli Articoli di Confederazione che dal 1781 al 1787 ressero i rapporti tra le colonie sulla base di poche regole e senza un forte potere comune non furono un fallimento su tutti i fronti, come si tende spesso a far credere.
In questa fase storica, certamente, ci furono tensioni: basti pensare alla rivolta guidata dal contadino Daniel Shays (del Massachusetts), postosi alla testa di quanti erano insofferenti delleccessiva tassazione causata dai debiti di guerra. Ma quella crisi è in larga misura da attribuirsi alle conseguenze del trattato di Parigi e ai limiti degli strumenti atti a finanziare lintesa confederale.
È proprio grazie a tali difficoltà, ad ogni modo, che Hamilton riesce a far pesare i propri argomenti. I disagi danno forza ai nemici degli Articoli di Confederazione ed è in questa fase che si realizza unalleanza fra chi teme che linstabilità possa aprire la strada a una nuova monarchia e chi, invece, vuole costruire anche in America un ordine politico di stampo europeo.
Il fatto che per quasi due secoli degli anti-federalisti si sia perduta la memoria attesta che, a Filadelfia, furono loro a essere sconfitti. Ma questo è vero solo in parte, dato che lo stesso Hamilton avrebbe voluto ottenere molto di più e infatti abbandonò la Convenzione, profondamente deluso, prima della fine dei lavori. In definitiva, la Costituzione americana emerse da un compromesso, che permise a Mason e ai suoi di ottenere il «Bill of Rights», ossia i primi dieci emendamenti schierati a difesa delle libertà fondamentali.
In merito al rapporto tra centro e periferia, però, lequilibrio raggiunto non fu definito con chiarezza.
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