Una carriera dietro le spalle che continua a passargli davanti agli occhi, una vita da splendido 75enne e una filmografia lunga 40 titoli, una nuova casa con terrazza sulla laguna di Ville de Sète, 30 km da Montpellier («L'ho acquistata da 15 giorni, ho venduto il casale del '700 che avevo fuori Parigi, che sarà pure Parigi, ma volevo il mare, il sole e le ostriche di Bouzigues...»), una moglie (molto gelosa), una figlia di 33 anni («Si chiama Divina. Macché attrice... Ha 185 di quoziente intellettivo. Significa che rompe i coglioni a tutti, nessuno è mai alla sua altezza, io volevo lavorasse nella finanza, lei ha scelto il bio, e ha fatto bene: produce succhi di frutta e verdura straordinari»), e un viso icona. Titoli di testa: Luc Merenda. Sparatorie, inseguimenti, belle donne, commissariati e drammi morbosi.
Scorrevano gli anni Settanta. Quando l'Italia produceva 350 film all'anno ed era la seconda cinematografia occidentale dopo gli Stati Uniti. Gli effetti speciali erano scarsi ma avevamo gli stuntman migliori del mondo. E trionfava il cinema di genere. A Milano c'erano ancora i barconi di sabbia sui Navigli, si parcheggiava in piazza Duomo (che meraviglia!), la polizia aveva la Giulia verde e il poliziottesco virava tra il giallo e il rosso. Inchieste, night e Soleil rouge.
Il B.A. Film Festival la premierà come «eroe del cinema popolare italiano».
«Gli eroi veri non fanno cinema. I filosofi che condannano le guerre, i generali che cercano di renderle meno sanguinose e i politici che provano a evitarle. Ma ormai i politici sembrano servire poco, sia lì in Italia sia qui in Francia».
Lei è francese, Nogent-le-Roi, valle della Loira. Di nonno italiano.
«Svizzero italiano, Lugano. Ma io da piccolo ho seguito i miei genitori in Marocco: Agadir. Sono rimasto 13 anni e quando sono tornato a Parigi mi sentivo a disagio. Io, selvaggio cresciuto per strada e in spiaggia, parlavo con l'accento dei pied-noir. I miei compagni mi dicevano: Sei arabo?. E io li menavo».
Si preparava ai film d'azione...
«Mentre studiavo alle scuole superiori mi sono appassionato di paracadutismo, moto e savate, la boxe francese. Era un periodo strano...».
Era maggio, del '68.
«Ho visto gli studenti manifestare. All'inizio erano ragazzi ribelli, ma dopo pochi giorni erano già diventati solo gente che tirava sanpietrini. Casseurs... Come dite voi? Teppisti... Cinquant'anni dopo è la stessa cosa. Li vede i gilet jaune? All'inizio cittadini arrabbiati che chiedono il minimo sindacale, una cosa legittima visto che in Francia ci sono 10 milioni di persone che vivono con mille-1200 euro al mese. Poi si sono trasformati in vandali. Non cambia niente. I meccanismi sono gli stessi. Si parte da una giusta rivendicazione e si finisce con la violenza».
Lei dove finì?
«In America. Mi dissi: Questo Paese del cazzo non mi piace. Vendetti l'Honda S800 Coupé e comprai il biglietto per New York. L'idea era frequentare un master alla Columbia University, ma non avevo molta voglia di studiare. Ho fatto mille lavori senza soddisfazioni, tra cui cameriere in un locale per i minchioni del cinema e della moda, e una sera, in mezzo a donne bellissime che neanche mi guardavano, trovo una bimba che mi chiede: Perché non fai il fotomodello?. A me sembrava una cosa da frocio...».
Non siamo più negli anni '70... Ieri sera ho rivisto Il poliziotto è marcio. Lei dopo aver sparato a una banda di rapinatori dice: «Erano quattro terroni morti di fame».
«Je comprends... Volevo dire effeminato... Comunque, mi pagavano bene e così iniziai, le mie foto finirono su After dark, una famosa rivista per gay, e dopo mi pagarono ancora meglio. Però non riuscivo a ottenere la green card. È il 1970, e torno in Francia».
E lì gira OSS 117. Cos'è?
«Un James Bond dei poveri. Girato in Brasile. Ma almeno ero la star».
Poi arrivano i film importanti.
«Ma non da protagonista. Le 24 Ore di Le Mans con Steve McQueen, e Sole rosso con Charles Bronson, Toshiro Mifune, Alain Delon, Ursula Andress... in Francia non andavo da nessuna parte».
E arriva in Italia.
«Roma, 1971. Capisco subito che è il mio Paese. Mi sento a casa: la gente, i colori, tutto. In 12 anni sono tornato in Francia solo per i funerali di mio padre».
Con Maurizio Merli diventa l'icona del poliziottesco. Titoli cult.
«Milano trema. Il poliziotto è marcio. La città gioca d'azzardo... Tutti fra il '73 e il '75».
Tutti girati da Sergio Martino o da Fernando Di Leo.
«Martino bravissimo, pariolino, una grande voglia di fare generi diversi, e infatti alla fine ci è riuscito. Di Leo uomo del Sud, sensibilità enorme. Sergio voleva sembrare forte, Fernando lo era».
I vostri film sembravano intrattenimento, invece erano politici e anticonformisti. Corruzione, potere, mafia...
«Infatti poi li hanno rivalutati. Quando li giravo pensavo di essere un ladro: mi appropriavo dei soggetti che gli altri rifiutavano. La polizia accusa parlava dei servizi deviati: nel 1975. Ha presente? Anni di piombo, strategia della tensione... Il poliziotto è marcio è la storia di un commissario corrotto, ed ebbe guai con la distribuzione. E in Italia: ultimo atto?, di Massimo Pirri, un gruppo di terroristi fa una strage per uccidere il ministro dell'Interno. Uscì nel '77, pochi mesi prima del sequestro Moro. Lo sceneggiatore era un genio».
O uno vicino alle Br.
«È che all'epoca non piacevano a tutti quei film».
A Lei piaceva girarli?
«A un certo punto avrei preferito fare il regista. È che volevo cambiare... Maurizio Merli fece trenta film identici, io mi sono sforzato di fare altro. Martino mi diceva: Sei ricco, conosciuto... Cosa vuoi di più? Continua a fare il commissario».
Risposta?
«Gli dicevo che se avessi voluto fare il commissario tutta la vita, sarei entrato in polizia».
Rifiutò di fare Er Monnezza.
«Lessi il soggetto. Due pagine. Troppo trash. Dissi no, e feci la fortuna di Tomas Milian».
E passò alla commedia: ha lavorato con...
«Enrico Maria Salerno, Paolo Villaggio, Ugo Tognazzi... forse il più grande. Uno che passava dal dramma al comico sempre a livelli altissimi. Un gigante».
I film erano un po' piccini.
«Ma no... Facevano grandi incassi, non erano così male, anche se la critica li snobbava».
Il pubblico li adorava. C'erano sempre belle donne.
«Ursula Andress era molto naturale, non presuntuosa, cosa rara nel giro. La Fenech invece ha dimostrato di essere una grande produttrice, donna d'affari, cosa che nessuno avrebbe immaginato. Poi Ornella Muti. Strafiga. Deliziosa e forse ingenua. E Dayle Haddon, bellezza assoluta: non era nata per avere a che fare con questi animaletti selvaggi che bazzicano il cinema, un mondo in cui il talento migliore spesso è la cattiveria».
A volte lo è solo la bellezza. Anche per gli uomini. Per Lei?
«Essere belli a volte è utile, altre meno. Ho perso molti film perché il regista non voleva un altro maschio alfa sul set».
Ci ritornerebbe? Sul set, dico.
«In Francia ho fatto una serie tv in 26 puntate, molto popolare».
Nel cinema intendo.
«... dovrei trovare un regista che rispetto, e un copione che mi piace».
Tarantino ha detto che Lei è uno degli attori che gli ha fatto venire la voglia di fare cinema.
«Ecco, se mi chiama lui sì».
Se no?
«Resto in terrazza a prendere il sole».
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