Forse aveva davvero ragione il grande Tenco. Me ne convinco sempre di più. Aveva proprio ragione lui, quando diceva che non c'era spazio per la poesia - quella vera - in un Festival che preferiva canzonette tipo: Io, tu e le rose ad altre di spessore più intenso. Anche se non credo che sia tutta colpa del Festival di Sanremo, se proprio devo dirla tutta. Credo che il problema siamo più noi. Noi, con la nostra triste voglia di sentirci dire ancora quelle piccole banalità di sempre che tanto ci fanno sentire sicuri; quelle inutili certezze da zero a zero che, però, ci stanno così a cuore e ci fanno pensare, dal calduccio del nostro salottino: «Ehi, tranquilli, niente è cambiato».
E via così, allora. Via ancora verso l'ennesimo Festival del già detto e del già sentito, della paura di osare, dell'anti-poesia, di Orietta Berti e di Toto Cutugno, delle frasuccie da asilo nido tipo: «I prati sono verdi», «il tuo sguardo è luminoso», «voglio stringerti tra le mie braccia» e le rime cuore-amore. Ma sì, chi se ne frega. In fondo la gente vuole solo un natale con la neve, direbbe Vasco Rossi, uno che la poesia, volente o nolente, la semina a destra e a sinistra, senza ormai più nemmeno rendersene conto. Così, come a gettare coriandoli al vento. Ma infatti, lui, a Sanremo, era arrivato ultimo. Lui. Cosa che non accadrà a Dolcenera, invece. A questa giovane creazione dell'ennesimo reality che ha pensato bene di chiamarsi come una canzone di De Andrè, e poi di andare a cantare: Com'è straordinaria la vita, regalandoci perle di inutilità tipo: «com'è straordinaria la vita, che un giorno ti senti come in un sogno e poi ti ritrovi all'inferno. Com'è straordinaria la vita che non si ferma mai, sì, non si ferma mai»
Grazie, Dolcenera. A nome di tutti, grazie. Terremo preziose questi tuoi versi illuminanti e mai sentiti
vabbè.
Fortuna che, però, c'è la Tatangelo. Almeno lei. Lei, che ci irradia di luce e di poesia con colpi di fioretto da vera regina della penna: «essere una donna non vuol dire riempire solo una minigonna
È la gioia di stringere un bambino forte, forte sopra il seno, con un vero uomo accanto a sé». Beh, non me ne voglia il grande Mogol che in passato ci ha dato tanto, ma il mio compagno di banco delle elementari svolgeva i «pensierini» in maniera più profonda.
Sapete cosa dico, allora? Povero Carlo Fava. L'unico che merita un elogio per i profumi che ci ha fatto odorare con il suo testo Un discorso in generale, per le sue parole che sapevano di grandi cantautori, di vino, di nuvole, di amore viscerale, di sudore, di gioia, di magia. Come fa la tua voce a cantare la pioggia che cade, il vento, il sereno, la tua voce a toccare e a sfumare nei colori dell'arcobaleno. Lui sì che ha qualcosa da dire. Da raccontarci.
Povero Carlo Fava. Lui, l'ennesimo barlume di meravigliosa sregolatezza, spento dalla solita banalità che tutti continuiamo a tenerci così stretta.
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