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I ragazzi prigionieri in una stanza

I ragazzi prigionieri in una stanza

Hanno tra i 15 e i 25 anni. Non studiano. Non lavorano. Non hanno amici. E se anche ne è rimasto qualcuno, la frequentazione è solo virtuale. Mai un'uscita, una pizza, un cinema, perché loro non escono di casa. Mai. Stanno svegli di notte quando il tempo rallenta, il mondo si ferma e il non far niente sembra meno colpevole. Di giorno dormono, per non dover assistere alla vita (degli altri) che riprende.

«Hikikomori». Si chiamano così. Ragazzi. Maschi soprattutto, benestanti, intelligenti, affatto pigri che scelgono il ritiro sociale. Isolati. Via da tutto e da tutti. Una scelta sofferta e di sofferenza. Eppure d'un tratto l'unica possibile. Hikikomori. Una parola giapponese che letteralmente significa «stare in disparte». Ma ormai di giapponese ha solo il nome e l'origine. Lì tra gli anni '70 e '80 all'improvviso si sono accorti di una generazione che stava scomparendo, chiusa tra le mura di casa.

L'ultimo caso si è verificato domenica scorsa a Torino, dove un ragazzino si è gettato dal balcone perché la madre gli aveva levato il pc, su cui viveva.

Oggi sono 613mila le persone di oltre 40 anni che non sono più riuscite a riprendere una qualche vita sociale. E ce ne sono altre 541mila sotto i 40, da più di sei mesi senza contatti con il mondo esterno. Sono i dati del governo che è arrivato a contarli, a cercare soluzioni per un fenomeno che non ha origine da alcuna patologia ma casomai ne sviluppa altre. In Italia non ci sono numeri certi. Centomila, secondo l'associazione Hikikomori Italia, nata come blog di un giovane psicologo nel 2015 e diventata punto di riferimento per migliaia di ragazzi, genitori (oltre duemila in tutta Italia), medici e, psicologi attorno a un problema ancora troppo sotterraneo. Spesso confuso con la dipendenza da internet. E allora cominciamo proprio da qui. Che cosa non è un hikikomori.

LA GRANDE FATICA

«Non è riconosciuta ancora neppure come una malattia. È una sindrome culturale giapponese», spiega Marco Crepaldi presidente dell'associazione. Non è fobia sociale. Non è depressione. Soprattutto non è dipendenza da internet. Spesso, ma non sempre, l'hikikomori abusa del computer ma perché è l'unico strumento che ha per restare in contatto con il mondo esterno. Colma un vuoto. «Tolto il videogioco, tolto il computer, il vuoto rimane - spiega -. Non possono essere definiti eremiti perché non sono asceti, non rinunciano ai benefit della vita, al cibo, alla tecnologia». Se vogliamo tracciare una definizione è «colui che fatica a relazionarsi con gli altri ad adattarsi al sistema sociale e tende ad allontanarsi, fino al punto di sviluppare una repulsione verso l'ambiente».

Fatica. Ecco la parola che ricorre. In pratica, mollano. Schiacciati da una qualche massiccia pressione, germogliata tra la scuola e la famiglia. Ansia del successo. Realizzazione sociale. Paura del giudizio, di non corrispondere alle aspettative degli altri, non riuscire a mantenere quel livello di performance che continua ad alzare sempre più in alto l'asticella. E sempre prima. Nell'adolescenza e giù giù, 13, 12 anni dentro quell'eta delle medie dove la crescita (sempre più anticipata) deve fare i conti con troppe variabili. Chi non è in grado di reggere, chi è più fragile, chi per un qualsiasi motivo, incidente o accidente della vita si trova in una situazione di debolezza, fa fatica a reggere il confronto. E la paura di essere «visto» fallire diventa insostenibile. Più del fallimento stesso.

Gli studi indicano che è un «male» delle società più avanzate «fondate sul potere dell'immagine, dove per essere accettati bisogna essere brillanti, simpatici, belli - continua Crepaldi -. Anche i social giocano un ruolo importante». Tutti sanno tutto. Cosa fa il compagno di classe, se si è laureato o fidanzato. Se è in vacanza, se si sta divertendo, se è andato in discoteca, con chi... Una vita di felicità illusoria che ognuno propina a suon di like. Certo non è «solo» questo. Come non è «solo» altro. È tutto, tutto insieme. Che lavora piano piano scavando la terra intorno. Piccoli solchi sempre più profondi. E quando si chiude il cerchio non resta più via d'uscita.

I TRE GRADI DELL'HIKIKOMORI

All'inizio è solo un malessere diffuso, dove la solitudine si affaccia come un sollievo. Poi col tempo le relazioni virtuali prendono il sopravvento, il ritmo sonno-veglia si inverte e la scuola si allontana. «Sono ragazzi molto maturi, non hanno deficit cognitivi ma partono da tesi molto razionali, dal loro punto di vista. Tipo: "Ma cosa esco a fare?", "gli altri sono tutti superficiali", "la società fa schifo", qualcosa che tutti un po' pensiamo ma che vengono portati all'estremo», spiega Crepaldi. Nel libro Hikikomori. I giovani che non escono di casa, ha individuato tre stadi. E ha «contato» chi c'è dentro in Italia.

Il 38,5% dei genitori ha dichiarato che il figlio si trova nella prima fase («frequenta la scuola o il lavoro e ha ancora dei contatti sociali diretti, oltre a quelli virtuali»), il 55,2% nella seconda fase («ha abbandonato completamente la scuola o il lavoro e tutti i contatti sociali diretti, ad accezione dei parenti, preferendo i contatti virtuali») e il 6,3% alla terza fase («non intrattiene nessun tipo di relazione sociale, nemmeno con i parenti o tramite internet).

I momenti più delicati sono quelli di passaggio. Dopo le medie «i primi due anni della scuola superiore sono i più critici. Ma anche tra il liceo e l'università». Esiste un preciso punto dove non bisognerebbe mai arrivare: l'abbandono della scuola. Dopo, è tutto più difficile. La relazione con i compagni, gli insegnanti, gli episodi di bullismo talvolta subdoli e invisibili agli occhi dei docenti, contribuiscono a creare il solco. I dati (Istat) fotografano più del 50% degli studenti vittima di offese o violenze a scuola, il 9% con cadenza settimanale.

ALLARME ITALIA

Tra il 2015 e il 2017 il 4,3% ha interrotto gli studi, circa 112.240 ragazzi (maschi per lo più). Un dato che ci posiziona ai primi posti in Europa. «Se un ragazzo ha difficoltà ad andare a scuola, a integrarsi va aiutato. Subito», allerta. Così l'associazione è stata coinvolta dal Miur per scrivere le linee guida nazionali riguardo al fenomeno Hikikomori e potere indicare alle scuole come gestire i casi.

Già cosa fare? «Sono ragazzi meritevoli di programmi personalizzati. Invece molte scuole non li attivano perché non c'è una diagnosi riconosciuta - insiste lo psicologo -. Poi aiutarli a finire l'anno scolastico, magari con lezioni al pomeriggio o via internet. O cambiare scuola. La bocciatura è la definitiva condanna all'isolamento». Ri-stabilire la relazione che non metta al primo posto l'andare bene o male a scuola, allentare le pressioni sui risultati. Spegnere «il computer non serve a niente perché non è l'elemento che li tiene in casa. Quello che li barrica è la perdita di motivazione nei confronti di una vita sociale con le sue tappe scolastiche e lavorative che non riescono o non vogliono sostenere».

Come Davide (il nome è di fantasia). Studente modello di medicina che rifiuta ottimi voti per non abbassare la media del 30. Resta indietro. La sensazione del «tempo perso» diventa stress, poi vergogna verso i coetanei.

Evita occasioni che lo «obbligherebbero a rendere conto delle sue difficoltà» e in quel meccanismo di «tutto o niente» scatta l'isolamento.

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