I rom: «Potevamo bruciare tutti nelle baracche»

Fiamme, terrore, e in 300 senza rifugio. Nessun ferito. In fumo decine di roulotte, auto e furgoni

Gianandrea Zagato

Non c’è sole che possa asciugare le lacrime di Alicia. E che, oggi, non va a scuola come ieri e pure domani. Anche lei costretta a non frequentare la quarta elementare, come Ilenia, Florin e Bodgan. In classe, dice, «maestra Laura non ci vuole senza diario, quaderno e astuccio». Che erano nello zaino e «sono bruciati come i materassi e i vestiti».
Cenere come quella roulotte di via Triboniano che, confida Alicia, ha preso fuoco subito dopo quella del suo vicino, «uno cattivo e sempre ubriaco, anche l’altra sera». Racconto di una pentola troppo piena d’acqua messa a bollire sopra un fornellino da campo e di un gesto di disattenzione che si trasforma in una morsa disumana di calore: «La pentola e il fornellino sono caduti su di un materasso che ha preso fuoco e lui non è stato capace di spegnerlo».
Dieci secondi, trenta secondi e le fiamme si sono alimentate e trascinate da una roulotte all’altra nella polveriera di via Triboniano, alle spalle del cimitero Maggiore. Immagine di un’ex favela distrutta, di una cittadella dell’illegalità dove tra immondizie, puzza da spavento e scheletri di roulotte e furgoni c’è chi tenta ancora di trovare pezzi di vita. All’ora di pranzo Florian trascina una tanica d’acqua e s’aggira in quel punto - là, sotto quel pilone della bassa tensione fusosi per il calore - a cercare un documento «importante, il passaporto». Inutile dire che, dai cumuli di rifiuti, non spunta nulla che sia più grande di un francobollo ma Florian continua la sua caccia, «questione di vita o di morte».
E come lui s’aggirano altri clandestini, facce da invisibili in questo lembo ai margini di Milano dove gli operai del Comune insieme ai vigili del fuoco «ripuliscono, ripuliscono e ripuliscono». Leit motiv di chi rimuove macerie e bombole del gas inesplose, di chi stacca i cavi elettrici e chiede una mano ai rom, «si ripulisce tutti insieme altrimenti? Bo’, chissà quanto ci impiegheremmo a riportare l’area in sicurezza». E mentre Milano corre in sottofondo col rumore di Tir, in Triboniano c’è chi fa la conta: «Cento roulotte distrutte, dodici auto e sette furgoni. Duecento, trecento persone senza un rifugio». Conteggi «spannometrici» avvertono quelli della Protezione Civile, già impossibile fornire una stima precisa di una disastro che, fortunatamente, non ha provocato neppure un ferito.
«Rischiavamo di fare la fine dei topi dentro le nostre “baracchine” di cartone», «è stato un attimo e ci siamo catapultati fuori, con quello che avevamo addosso», «sono riuscita solo a prendermi quel pelouche che fa ridere la mia bambina». Spezzoni di storie con lo stesso finale, di chi nel cuore della notte si è scaraventato in mezzo alla strada o è riuscito, «colpo di fortuna», a passare la notte dentro quella Mercedes o quella Nissan salvate dalle fiamme. Rifugio ancora per un’altra notte e chissà per quanto, anche se il Comune di Milano ha subito offerto sistemazioni per donne e bambini: accoglienza spesso rifiutata dagli ex di quella favela della vergogna cresciuta a fianco di un campo nomadi regolare.


E che, adesso, vagano in un mare di fango, appiccicoso e maleodorante: poltiglia che inghiotte le scarpe di Alicia e dei suoi amichetti mentre rovistano in cerca di un quaderno o di una matita o di qualsiasi oggetto che, secondo il loro metro, possa agli occhi della maestra Laura perdonarli di «un’assenza ingiustificata». Aggettivo impossibile nell’ex via Triboniano.

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