Roma - È chiaro: scioperano per se stessi. I sindacati uniti dopo anni nel birignao di sigle (Cgil-Cisl-Uil-Ugl) fanno trincea comune, invitano gli italiani a scendere in piazza gridando all’iniquità, alla ruberia, ma in realtà difendono solo il loro diritto di veto, la facoltà di sbattere i loro «no» in faccia alla politica, che poi è l’unico vero potere che hanno. Del resto, se dovessero obliterare le decisioni di chi fa le leggi e governa in nome di un comune interesse, che ci starebbero a fare?
Il tema è spinoso, perché il lavoro di intermediazione sociale è in teoria rispettabile, e comunque arduo e spesso ingrato. Proprio per questo richiede capacità di mediazione, lungimiranza, interpretazione degli scenari, elasticità. Ancor di più nella cuore della foresta buia della più grave crisi economica del dopoguerra, che sta minando tutte le certezze sulle quali era basata l’italian way al benessere: il posto fisso, il risparmio, il mattone, la sussidiarietà familiare, il piccolo è bello. Tutto cambia e richiede nuove risposte. Tutto cambia tranne l’atteggiamento rigido dei sindacati confederali, veri e unici monoliti del panorama politico-economico italiano, quelli che bevono l’uovo di oggi e lasciano scappare la gallina di domani. «Le parti sociali - scriveva ieri sul Corriere della Sera Dario Di Vico - devono sapere che lo sviluppo-senza-spesa-pubblica passa per la rivisitazione di alcune rendite di posizione e in concreto per un negoziato senza tabù. Non ci si può opporre a tutto, dall’eliminazione delle pensioni di anzianità all’apertura domenicale dei negozi e persino alla liberalizzazione della vendita dei farmaci di fascia C!».
Eppure nell’epoca dell’economia 2.0, della bistrattata politica pur capace ogni tanto di soprassalti di responsabilità, della società digitale (volente e nolente) solo loro pensano ancora analogico. Incapaci di essere differentemente, di andare oltre il solito schema dei fronti contrapposti, sostanzialmente di cambiare, proprio mentre quel cambiamento lo invocano dagli altri, come ha fatto Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, domenica sera appena uscita dall’incontro a Palazzo Chigi con il premier Mario Monti: «Non si fa alcuno sforzo per individuare altre fonti: si colpiscono solo i redditi stabili e conosciuti».
Il rendez-vous Monti-sindacati è un’icona molto più efficace della giornata a braccia incrociate. Ieri il solito stanco rituale, domenica sera un germe di novità, con un esecutivo tecnico, privo di qualsiasi colorazione politica anche se dotato di ampio mandato da maggioranza e opposizione parlamentare, cortese nel ricevere le parti sociali ma fermo nel rifiutare la logica della concertazione a ogni costo. Scusate, signori: l’orchestrina ripone gli strumenti mentre il transatlantico va a fondo. Dall’altra parte un fronte sindacale unito ma privo di argomentazioni, quasi afasico nell’essere assai poco abituato a essere ignorato in nome di un superiore interesse. «Nell’emergenza ci si sarebbe aspettato un confronto approfondito con i sindacati», considerava perplesso ieri in una trasmissione televisiva Giorgio Benvenuto, storico sindacalista a disagio.
Ma a parte il Pd, imprigionato nelle sue ambiguità e spaccato tra lotta e governo, il resto della coalizione che sostiene Monti non è tenero con Camusso e soci. «Sarebbe stato utile e responsabile uno sciopero di tre ore per la crescita, non tanto per dire di no», dice Emma Bonino.
«C’è una discontinuità positiva di questo governo, quella di non impegolarsi contro i veti del movimento sindacale», ammette Filippo Berselli, senatore del Pdl. «Annunciare uno sciopero per difendere gli interessi di parte contro l’interesse generale, mentre sono necessari sacrifici di tutti, è un atto irresponsabile», tuona Italo Bocchino del Fli. Benvenuti in Italia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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