Durante la tournée mondiale del 1972, Leonard Cohen si esibì alla Royal Albert Hall di Londra in un silenzio quasi doloroso nella sua intensità. «Bastava un colpo di tosse per sentirsi colpevole», scrisse un critico. Alla fine i fan lo chiamarono a gran voce per un bis ma lui riapparve annunciando: «Non ho più nessuna canzone dentro» e se ne andò.
L’episodio, narrato nella biografia Una vita di Leonard Cohen (Giunti) di Ira B. Nadel, rende lo spirito di un uomo vero. Vero perché contraddittorio, incapace di distinguere tra realtà e azzardo visionario, animato nell’arte e nella vita dalla disperazione. Fu definito «poeta laureato in pessimismo» e ironicamente ricevette una laurea honoris causa perché divenuto per molti «simbolo dell’angoscia, dell’alienazione, del dubbio», ma lui spesso ripete: «Ho sempre pensato di avere un’anima comica». Ha vissuto ricercando la pura spiritualità e al tempo stesso la bellezza - soprattutto femminile - che nonostante le mille conquiste è sempre evaporata dalle sue mani non appena la sfiorasse. Una tempo arrivò a dire: «La realtà è una donna trasformata dall’orgasmo. Tutto il resto è finzione. Ogni donna che incontro mi stende». Tanti rapporti conflittuali (la sua Suzanne, Joni Mitchell e mille altre) e uno, morto sul nascere ma non meno significativo, per Nico, «la perfetta regina ariana dei ghiacci» lanciata da Warhol come cantante dei Velvet Underground. Nel ’66 Cohen le moriva dietro, si consolava sulla spalla di Lou Reed, e le conseguenze di questa delusione furono profonde sulla sua arte: «Pensieri disperati su Nico. Chitarra morta, voce morta, melodie vecchie e false», scrisse sul suo diario.
La sua spiritualità è complessa (nasce da quando, ragazzo, imparò a ipnotizzare gli amici) e confusa, se è vero che da sempre «nuota nella radice ebraica» ma per anni ha seguito il monaco zen Seasaky Roshi, trasferendosi poi nel suo isolato monastero. Il primo precetto che ricevette da un amico sulla posizione del loto fu: «Sentirai molto male ma non muoverti, sarebbe peggio». Spesso fuggì a gambe levate da quel posto pieno di neve e fu fotografato ad Acapulco con taglio di capelli buddista e sigaro in mano. Ma poi la prese sul serio: «Lo Zen è ciò che non c’è; non c’è culto in forma di preghiera, non ci sono dogmi né teologia. Spesso non capisco neppure di cosa parli. Ma ti dà un posto dove ci si può sedere e pensare». Per Cohen l’arte è urgenza del racconto; non a caso nasce scrittore, il che non significa sacrificare la sacralità della scrittura alla semplicità di suoni folk. È un atteggiamento che nasce dalle sue feconde irrequietezze e dalla tradizione ebraica dell’unità fra legge scritta e legge orale. «Ogni mio libro e ogni mia canzone rappresentano un diverso tipo di crisi». Dichiarazione che spiega brani come Bird On a Wire (l’inno scritto a Idra, in Grecia, mentre guarda gli uccelli appoggiarsi ai fili della rete telefonica da poco approntata), Sisters of Mercy, Suzanne.
Nel 1966 dunque Cohen cominciò ad accarezzare l’idea di fare il cantautore ispirandosi a Dylan. I due s’incontrarono la prima volta nel ’69. Cohen lo definì «un Picasso», mentre Dylan rispose che una delle persone in cui gli sarebbe piaciuto trasformarsi, oltre a Roy Acuff e Walter Matthau, era Cohen. Negli ambienti colti di Montreal, quando un suo amico professore annunciò agli studenti: «Sapete che Leonard farà il cantautore?» questi risposero: «Ma se non sa cantare!». Il suo primo concerto importante, alla Town Hall di New York, partì malissimo. Dopo poche battute di Suzanne fuggì dal palco un po’ per un attacco di panico, un po’ per la scordatura della chitarra, ma il pubblico lo richiamò a gran voce. Il primo album Songs of L.C. fu una lotta con il produttore che voleva arrangiare riccamente le canzoni. Cohen, che curò il missaggio, si vendicò scrivendo: «Qualcuno presentò gli arrangiamenti alle canzoni. Ne nacque un certo affetto reciproco ma a causa di una sanguinosa faida venne loro impedito di sposarsi».
«Non ho mai percepito in me dei cambiamenti», dice malizioso, perché in lui le contraddizioni si ricompongono. In musica dapprima è un neo-Burroughs con un background che va dalla Bibbia ai beatniks (album come Songs From a Room); poi cinico cronista di spirito e materia (I’m Your Man); negli anni ’90 voce della disperazione politica (The Future) e oggi cantautore in Borsalino e abito gessato grigio che racconta la verità ma vive sempre nel dubbio, e soprattutto sa «che la vita è più facile quando non ti aspetti di vincere». Cittadino del mondo, si avventurò a Cuba per vedere Castro ed ebbe un rapporto privilegiato con l’Italia, dove incontrò persino Zeffirelli e Bernstein per scrivere la colonna sonora di Fratello sole, sorella luna.
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