IBSEN Il grande Nord afflitto dal male di vivere

Cent’anni fa moriva il padre del teatro moderno: nei suoi drammi profetizzò la condizione esistenziale dell’uomo del ’900

Cent’anni fa, il 23 maggio 1906, moriva a Cristiania (l’attuale Oslo) il più grande poeta drammatico del Novecento: Henrik Ibsen, il gigante del Nord che concepì e scrisse i capolavori del teatro moderno non nella natia Norvegia ma in Italia, tra Roma e Sorrento, dove soggiornò ripetutamente dal 1864 al 1868. Un dato significativo che getta più di una luce inquietante sulla dolorosa intimità di questo genio del Nord, un uomo schivo e aspro, squassato da ricorrenti crisi d’identità, che per tutta la vita murato in un’astiosa solitudine detestava i fiordi come la luce intermittente del sole. E sotto l’abbacinante candore delle nevi eterne conduceva una vita da recluso, abbarbicato nel silenzio, preferendo agli esseri umani la compagnia dei fantasmi scaturiti dall’inferno del suo io. Lemuri e streghe dell’inconscio collettivo che a volte assumevano l’aspetto di quei «bianchi cavalli» che in uno dei suoi drammi più famosi, La casa dei Rosmer, appaiono ogni volta che un erede di quella severa casta militare minaccia di togliersi la vita. Mentre a volte, generati dall’incubo di una malattia mortale, s’impadroniscono della fragile volontà dei sopravvissuti all’infamia dei loro predecessori mutandosi in Spettri di se stessi - come recita uno dei suoi titoli più celebri - prima di sprofondare nell’abisso senza scampo della dissoluzione.
Perché quest’uomo dominato dall’incubo della morte, che invano cercò una via d’uscita al proprio tormento immergendosi a vent’anni nello studio matto e disperatissimo dei costumi di Roma antica (cui dovette il suo debutto, nel 1848, con un Catilina dove raffigurava a tinte fosche l’umana incapacità a creare attraverso il sangue un nuovo ordine sociale) appare tuttora inclassificabile nell’arido casellario di una formula prestabilita. Era socialista Ibsen? Parrebbe di no, almeno per quanto concerne il suo disprezzo sia per la vita pubblica che per l’attivismo esagitato e contraddittorio del pensiero radicale, da lui stigmatizzato con livore nella Lega dei giovani, il dramma scritto dopo il ritorno dal paese del sogno di nome Italia dove il suo alter ego, un reporter animato da spirito rivoluzionario, finisce per cedere alle lusinghe e ai ricatti della borghesia, il ceto che ab origine vorrebbe abbattere. O era, al contrario, uno spirito schiettamente religioso, come sottolineano alcuni dei più ferventi ammiratori del suo genio, come il nostro Scipio Slataper che gli dedicò un saggio giustamente famoso? Nemmeno, dato che i pastori luterani, che nel suo teatro abbondano, a conti fatti si dimostrano pavidi sostenitori dell’ordine costituito imponendo alle donne che amano di rigettare la verità a favore del conformismo quando non le spronano addirittura al suicidio.
Era un moralista toccato dalla grazia? Sì e no dal momento che, se nel Piccolo Eyolf dopo la morte del figlio dovuta alla mancata vigilanza dei genitori travolti dal delirio dei sensi, padre e madre sembrano incamminati sulle vie dell’espiazione alcune taglienti battute a doppio senso ne infirmano, al finale, qualsiasi catarsi risolutiva. O era davvero quel democratico ardente e sincero, paladino della causa femminista, cui si deve un capolavoro indiscusso come Casa di bambola? Persino su questo punto, apparentemente incontestabile, i commentatori esprimono dei dubbi dato che Ibsen stesso, torturato dopo la stesura da più di un ripensamento, aggiunse al finale una frase posticcia da cui si arguisce che Nora, pur disgustata dal comportamento del coniuge, finirebbe per sottomettersi ancora una volta all’autorità patriarcale. E poco conta che questa clausola significativa il più delle volte venga omessa dalle rappresentazioni moderne della splendida commedia quando l’autore in pectore, tra una crisi e l’altra, manifestò un’eterna incertezza sullo scioglimento definitivo del suo dramma a tesi. Ma c’è anche chi, tra i seguaci di Szondi, un altro tra i grandi esegeti del «padre del dramma borghese», fa balenare il sospetto che, precedendo Pirandello sul suo stesso terreno, il norvegese abbia tracciato con Peer Gynt, nella pace di Sorrento, il ritratto di uno spirito libero regalando all’eroe che, dai monti innevati della Scandinavia si precipita gioioso su e giù per il pianeta che ai suoi piedi gli schiude un’eterna primavera, la gioia felice dei sensi.
Chi meglio di Peer infatti può pretendere al titolo di eterno fanciullo? Anche se, a ben guardare, questa sorta di incantevole Peter Pan cresciuto all’ombra dei Troll dove, tra i crepacci, ha sede il regno sotterraneo dell’immaginazione e il mondo si muta nella favola cantata dai poeti dell’Età dell’Oro, non ha nulla in comune col solare Liolà delle masserie siciliane. Non è un essere umano, ma uno spirito vagante, un elfo bizzarro che non ha nome e non ha età. Che ha per madre una coetanea che accompagna ridendo oltre la soglia della morte e per purissima promessa sposa una fanciulla che, come una Bernadette sui generis, prega per lui ogni sera in una capanna spersa in un bosco che somiglia in modo impressionante alla «selva oscura» di padre Dante.
Chi è allora Ibsen? E ancora: c’è o non c’è salvezza per l’uomo nell’ottica frammentaria e inconclusa della sua opera? Persino Ingmar Bergman, all’epoca della sua famosa messinscena del Peer Gynt, se lo chiedeva con amarezza ponendo allo spettatore l’angoscioso interrogativo se persino nella Donna del mare, l’unico dramma che l’autore suggella con l’happy end, la conciliazione tra i coniugi non obbedisca alla logica dell’artificio in un uomo che, nella sua dissociazione, gli sembrava debitore solo a se stesso. Eppure questo gigante della poesia drammatica che, innamorato dell’arte della Duse, rifiutò però di riceverla lasciandola vegetare tre giorni in una locanda vicino l’eremo dove si era barricato in sdegnoso isolamento, subì almeno una volta - incredibile ma vero - l’influsso del poeta tragico più lontano, tra i contemporanei, dal suo mondo espressivo. Chi era costui? Nientemeno che l’alfiere più noto del decadentismo europeo, il nostro Gabriele D’Annunzio. Ovvero l’autore che la Duse aveva negli ultimi anni sostituito con Henrik Ibsen, il poeta che le dava «vita e speranza». Non è casuale infatti che, nel 1899, Ibsen si congedi dal teatro con Quando noi morti ci destiamo, lo stesso anno in cui D’Annunzio lega in Italia il suo primo contrastato successo alla favola tragica della Gioconda. Dove la sposa del grande scultore sacrifica le proprie mani per salvare il capolavoro del consorte. Che la modella vorrebbe distruggere per non lasciare a chi l’ha tradita la testimonianza, nel marmo, della sua carne viva.

Mentre Irene, nel sanatorio alto sui monti dove lei, modella e ispiratrice del grande scultore Rubek che ha tradito la sua ispirazione nella statua che ne raffigura i tratti, lo conduce alla morte «nell’aureola del sole nascente» relegando per sempre nel nulla la donna che per breve tempo la sostituì nel cuore dell’artista: una creatura di nome Maja. Che nel buddismo, da Ibsen appassionatamente investigato negli ultimi anni, significa come è noto «illusione». Un enigma che ci ha lasciato da decifrare col suo sorriso da eterno incantatore.

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